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Zampa d’elefante

È il mito americano – gente! – : anche l’ultimo degli idioti può aspirare al più alto dei traguardi. 

Stavolta – aggiungiamo noi – quel traguardo è riuscito a raggiungerlo e a toccarlo con mano: l’ultimo degli idioti non soltanto ha conquistato la Casa Bianca, ma l’ha occupata insieme ai suoi sordidi amici di bevute.

Neppure si può dire che a Washington sieda adesso un asino, dal momento che l’asinello è il simbolo elettorale dei Democratici americani. 

Quello dei Repubblicani è invece l’elefante. E mai come in questo caso, in una Sala Ovale degradata al set di un sequel de «Il Padrino», l’immagine che meglio si riesce a percepire è quella di un elefante dal ciuffo biondo. Un elefante in cristalleria, a voler esser precisi. Con tutti i disastri che può compiere al solo sventolar delle orecchie o a un timido agitar di proboscide.  

Impossibile conteggiarne i danni, col pachiderma in continuo e perenne movimento. Davanti agli occhi di tutti ci sono (per adesso) la caduta del dollaro, il crollo del turismo europeo, l’inimicizia del resto del mondo, l’incertezza dei mercati, la rottura dell’ombrello americano che proteggeva i Paesi del Vecchio Continente. Ritenuti al medesimo tempo pargoli svezzati ormai in grado di reggersi sulle proprie gambe, ma anche fastidiosi vecchietti dei quali liberarsi al più presto, con la loro inutile saggezza e l’intralcio delle loro regole. 

Che il barcollante pachiderma sia presto diventato l’idolo delle folle, è legge matematica: se l’ultimo degli idioti è riuscito in pochi mesi ad impadronirsi dell’intera nazione, immagina a quant’altro potrà ambire il penultimo, o il terzultimo, o il quartultimo! All’intero pianeta? Con Luna e Marte in omaggio? 

Un concreto pericolo per l’idiota oggi al comando! Che infatti ha pensato bene di difendersene: chiudendo scuole ed università e cacciando dai più alti incarichi chiunque sia anche solo sospettato di conoscere l’alfabeto o le tabelline.

Ci sarebbe di che sorridere, osservando dalle più alletterate sponde europee il goffo incespicare di un inetto che pretende di anteporre l’azione (abborracciata) al pensiero (inesistente), quasi fosse possibile costruire qualcosa senza prima progettarla, o recitare un testo senza averne scritto prima il copione.

«Pensiero e Azione», predicava Mazzini. A nulla sarebbe servita l’azione di Garibaldi, senza il pensiero di Cavour. E viceversa. 

Si può sempre improvvisare, dirà qualcuno. Non a caso l’America è patria del jazz. Vero, quando ci si limita a suonare tra jazzisti. Non quando si è chiamati ad armonizzarsi con le altre differenti musiche del mondo, in un concerto di comuni e condivisi intenti. E, non riuscendoci, si preferisce alzare un muro di dazi che impedisce ad altri di ascoltare la propria musica, tappandosi le orecchie per non udire quella altrui. Spesso migliore.


C’è un altro popolarissimo detto, alla base del mito americano, ed è: «There ain’t no such thing as a free lunch»: «Non esistono pasti gratis». Un avviso rivolto ad ogni nuovo sbarcato in quella terra di promesse: qui ti è consentito arrivare fin dove vuoi, ma il carburante per giungervi lo devi metter tu, faticando giorno dopo giorno. 

Molti son coloro che han votato l’elefante con l’impossibile miraggio di uno, cento, mille pasti gratis: di una mai esistita America great again in cui la spesa pubblica è finanziata con i dazi e non con le tasse. Quasi che a sopportare il costo dei nuovi balzelli (balzoni!) non fossero poi quegli stessi consumatori, coi loro soldi. Un tempo versati direttamente nelle casse dello Stato, ed ora – indirettamente – incorporati nel maggior costo delle merci sopratassate. Un denaro che cambia forse tragitto, ma non le stazioni d’arrivo e di partenza.

Neppure sarebbe un’operazione a costo zero: perché i nuovi binari, molto più tortuosi, sarebbero un tragitto più lungo da percorrere, più rischioso e più incerto. Con non pochi effetti collaterali, come il possibile abbandono della tratta da parte di molti ex viaggiatori: vuoi per il costo del biglietto, vuoi perché la linea corre ormai distante dalle loro destinazioni, vuoi per la maggior lentezza. Tutto si può dire dell’elefante, ma non che sia un luminoso esempio di agilità e destrezza. 


Il continente americano, circondato dal mare, non è che una sola immensa isola. O meglio: tale sarebbe se le popolazioni ispaniche, inglesi, irlandesi, francesi, italiane, cinesi, tedesche che l’hanno abitata negli ultimi cinque secoli non l’avessero indissolubilmente saldata al resto del mondo grazie ai persistenti legami di mille e mille parentele. Una rete nella quale l’impacciato elefante inevitabilmente finisce per incespicare, e che vorrebbe strappare deportando altrove chiunque non sia un «americano vero». Dunque – almeno teoricamente – tutti, ad eccezione dei pellerossa: dall’africano Musk fino a se stesso, tedesco per parte di padre e scozzese per parte di madre. Doppiamente autodeportabile!

Così come ogni perfetto vigliacco, l’elefante si muove solitamente in branco. Quando invece agisce da solo, ama scegliere un bersaglio almeno cento volte più piccolo: che si tratti del minuscolo stato di Panama o della spopolata Groenlandia. 

Se poi la vittima dovesse rivelarsi più tosta del previsto, come il minacciato reame britannico del Canada, mostratosi capace di reagire con durezza, la tattica del lupo e dell’agnello presto evolve in quella della volpe e dell’uva: la preda non ci interessa, non è matura!

Ma il vero nemico di ogni vigliacco è il tempo. Quando, eliminate le vittime più deboli, il bullo finisce col ritrovarsi inevitabilmente circondato da animali feroci, quanto e più di lui. Che prima o poi lo divoreranno. 

La vera questione, dunque, non è quanti mesi durerà ancora l’elefante (nessuno sa dove gli elefanti vadano a morire, ma è certo che muoiano), ma quanta parte del proprio ed altrui territorio resterà ancora in piedi dopo il suo breve ma disastroso passaggio. 

Nell’attesa, godono le altre belve della foresta: da quelle più agili e sveglie, di verso orientale, a quelle ancor più crudeli, ma meglio intanate e protette, che bramiscono in cirillico. 

Il temibile rischio è che questi possano infine prendere il sopravvento, e a farne le spese siano le specie animali più evolute che popolano al momento la parte più civilizzata del pianeta: il continente europeo. 

Specie evolute e pacifiche. Ma non per questo (o proprio per questo?) le più appetitose.  

 

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