E se un bel tacer ci è stato dato intendere, tra l’assordante fracasso dei colpi di mortaio, il sibilo delle bombe e le esplosioni dei missili, quello è stato il profondo silenzio dell’Arabia Saudita. O meglio: di quella gran parte dei musulmani di fede sunnita che, ben più di Israele, hanno in odio i sanguinari fratelli di fede sciita. Non una parola sui combattimenti in corso.
La distanza tra Sciiti e Sunniti sarebbe giusto una questione meramente dottrinale e filosofica – non diversa da quelle che ancora dividono le decine di differenti fedi cristiane professate nel mondo – se ad avvelenarla non vi fosse un’assai più concreta questione territoriale, e cioè il controllo dei luoghi sacri ai musulmani. Uno dei quali è comune alle tre religioni monoteiste (la città di Gerusalemme), mentre i due restanti riguardano esclusivamente l’Islam: la città di Medina e La Mecca.
Circa Gerusalemme, la Chiesa di Roma si è signorilmente fatta da parte, quasi a voler esprimer pentimento per i misfatti di tante Crociate, limitandosi a conservare in loco un simbolico presidio francescano presso la Basilica del Santo Sepolcro. Per quanto riguarda invece Medina e La Mecca, la lotta è ancora aperta.
Gli Sciiti, che rappresentano un 15% del mondo musulmano, concentrati tra Iran, Iraq, parte della Siria e del Libano, sostengono di essere i soli a vantare diritti tanto su Gerusalemme che su Mecca e Medina, e son pronti ad uccidere o a morire pur di impadronirsene.
I Sunniti, distribuiti tra Arabia Saudita, Egitto e gran parte del Maghreb, intendono tenersi ben strette le due città del Profeta e, dopo aver a lungo combattuto per mantenere Gerusalemme, han dovuto infine rassegnarsi a condividerla con Cristiani ed Ebrei.
Le recenti aperture dei Sauditi al mondo occidentale, portate avanti dal giovane principe Mohammad bin Salman sul modello degli Emirati e concretizzatisi nella patente di guida alle donne (2017), nel permesso di proiettare film (2017), nell’ingresso del regno nel novero dei grandi eventi sportivi, dal calcio alla Formula Uno (2021), nella creazione di nuove attrazioni turistiche (Festival «Riyadh Season», città di Neom), in un ambizioso programma di sviluppo civile ed economico («Saudi Vision 2030»), unite all’interesse strategico di conservare un Paese terzo (Israele) prudentemente interposto tra il mondo sciita e quello sunnita, erano sul punto di concretizzarsi nell’adesione saudita a quei trattati noti come «Accordi di Abramo», stipulati nel 2020 tra Israele, Emirati Arabi e Stati Uniti. Un passo che avrebbe certamente rasserenato la situazione geopolitica nell’area, facilitando flussi e scambi anche religiosi: come da tempo avviene in Egitto, che trae non pochi vantaggi dall’ospitare sul Mar Rosso i tanti Ebrei in pellegrinaggio verso il Monastero di Santa Caterina e il Monte Sinai.
Molti tra gli osservatori concordano che proprio l’imminente adesione dei Sauditi all’accordo possa esser stato il fattore scatenante del massacro del 7 Ottobre: evento di dimensioni e modalità tali, perpetrato per di più da civili, da non poter esser lasciato senza risposta da parte di Israele, con l’effetto di riattizzare il fuoco nell’intera area mediorientale.
Sulla matrice sciita dell’attacco sussistono ben pochi dubbi, vista la rapidità con la quale Hezbollah dal Libano e Houti dallo Yemen si son simultaneamente affiancati ad Hamas, mentre dall’Iran piovevano insieme minacce e missili.
Oggi, a pochi giorni dalla ricorrenza di quel terribile giorno di sangue, Israele è fermamente intenzionato a saldare il conto con le frange più estremiste del movimento sciita. Ma son soprattutto i Sauditi, oggi più che mai, a sentire l’urgenza di mantenere e rafforzare il pieno controllo sui luoghi sacri, insieme al dichiarato obiettivo di conquistarsi un ruolo di credibile interlocutore in grado di dialogare da pari a pari con l’Occidente.
Si nasce incendiari e si diventa pompieri, recita un altro detto.
E se oggi Israele si ritrova ancora una volta costretto dal volere altrui a dover sopportare le fiamme di una guerra e a difendersene, chissà che il provvidenziale getto di schiuma diretto infine ad estinguerle non debba provenire proprio dal nemico di un tempo. Da quella penisola arabica che il principe Mohammad bin Salman Al Sa’ud, non ancora quarantenne, vorrebbe trasformare in un Paese più libero e moderno, in grado di affrontare con nuovi modelli culturali ed economici un futuro che vada ben oltre la breve vita di un petrolio comunque in via di deprezzamento, se non ancora di certo esaurimento.
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