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Di sgarbo in sgarbo

Ha fatto ’a mossa, il tirabusciò del terzo millennio. Dimissioni immediate da sottosegretario, indignato dalle osservazioni dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (in dialetto parlamentare: Antitrust) circa l’incompatibilità tra incarichi di governo e attività professionale e, qualche secondo dopo, l’ancor più immediato ritiro delle medesime. Quando ancora scrosciavano interminabili, da destra e da sinistra, lunghissimi applausi di liberazione e di sollievo.

«Dimissioni? Le ho solo annunciate: la mia agonia sarà lunga», è insieme la spiegazione e la minaccia. 

Il rilievo è quello di conflitto di interessi, in violazione della cosiddetta legge Frattini (L. 215/2004). In particolare l’art. 2, lett. d), laddove è statuito che «Il titolare di cariche di governo, nello svolgimento del proprio incarico, non può […] esercitare attività  professionali o di lavoro autonomo in materie connesse con la carica di governo, di qualunque natura, anche se gratuite, a favore di soggetti pubblici o privati». 

Se mai una legge in Italia ha peccato di eccessiva chiarezza, questa è certamente una di esse. Vieta espressamente quel che lo sgarbato sottosegretario con gran strepito invece rivendica: «Non posso fare la vita che ho fatto per cinquant’anni, non posso essere me stesso e essere sottosegretario!». 

Grande scoperta. 

Il Governo non è il Parlamento. Non scrive leggi, ma le applica, e chi ne è membro non viene eletto dal popolo, ma nominato dal Capo dello Stato. E solo allo Stato deve assoluta fedeltà. Esercitando le proprie funzioni, come solennemente giurato, «nell’interesse esclusivo della Nazione». Escludendo, pertanto, ogni altro possibile impiego di quelle speciali competenze in virtù delle quali, e non d’altro, il governante è stato prescelto fra tanti. 

Quello del ministro o del sottosegretario non è un incarico di rappresentanza, come lo è invece per deputati e senatori, ma un vero e proprio lavoro. Tant’è che mentre la Costituzione non corrisponde ai parlamentari alcun compenso, ma giusto un’indennità di carica (Cost. art. 69: «I membri del Parlamento ricevono una indennità stabilita dalla legge»), ai ministri e sottosegretari si riconosce invece il diritto a ricevere «uno stipendio» (L. 212/1952, art. 2). Non dunque una generica prebenda conseguente alla carica, ma un vero e proprio compenso quale corrispettivo di un lavoro che essi svolgono. 

Perché allora meravigliarsi se – come d’altronde accade anche nel settore privato – il datore di lavoro chiede e pretende l’assoluta fedeltà aziendale?

Nulla ovviamente proibisce, a chi possiede straordinarie conoscenze e competenze, di metterle al servizio del miglior offerente. È quello il lavoro del consulente, libero professionista, ben diverso da quello del dipendente, legato all’azienda da un contratto di esclusività. Se il mio mestiere è disegnare automobili, nulla mi vieta di farlo per qualsiasi marchio. Ma se le progetto in esclusiva per un brand, in nessun modo mi sarà concesso di farlo per altri. Neppure (e tanto meno) a titolo gratuito.

Dimessosi da dimissionario, e da null’altro, il sottosegretario resta incollato al guanciale e continua a far «la vita che fa da cinquant’anni». In barba a ogni legge e alla più basilare deontologia professionale.

Quanto questa decisione possa recar lustro a quel governo che si ostina ad ospitarlo, non ci è dato conoscerlo. Ma sappiano costoro che non tutti i muri crollano sotto i colpi che provengono (quando provengono) dall’esterno. Molti son quelli che cedono per i troppi colpi inferti dall’interno. 

 

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