Chi sono, oggidì, gli amici dei Palestinesi residenti a Gaza, più o meno forzati elettori (al 56%) dei carnefici di Hamas?
Sulla carta i sostenitori sarebbero in tanti: non soltanto i 22 Stati che costituiscono la Lega Araba, ma anche l’Iran e la Turchia, insieme con la maggioranza di chiunque, in ogni Paese del mondo, professi la religione islamica.
Con un tal numero di ricchi e potenti amici, il minimo che ci si sarebbe potuto attendere era vederli in gara per ospitare il maggior possibile numero di Gazei in fuga, per paracadutare sulla Striscia migliaia di container con cibarie e generi di prima necessità, per costringere l’Egitto (Stato membro della Lega) a spalancare i propri confini con Gaza, per trovare una soluzione alla crisi e magari contribuire a liberare gli ostaggi e a consegnare a un qualche organo di giustizia i macellai di Hamas...
Nulla di tutto questo.
Tutto tace.
Tacciono persino quegli altri Palestinesi che vivono in Cisgiordania, o nelle città di Haifa, Gerusalemme o Tel Aviv. Nessuno ha elevato più o meno vibrate proteste. Nessuna pronuncia dell’Autorità Nazionale Palestinese. Nessuna iniziativa politica da parte dell’ottantottenne presidente Mahmūd Abbās, più noto come Abū Māzen. Nessuna sollevazione di massa in Cisgiordania.
Nessuno, insomma, di quei capi di Stato usi a strapparsi in pubblico vesti e capelli in difesa del sottomesso popolo palestinese, tende fraternamente la mano ai Gazei privi di acqua, cibo, energia, in fase di lenta e faticosa trasmigrazione verso il sud della Striscia sotto attacco.
E se la cruda verità fosse che del popolo palestinese, a quei falsi e interessati amici, non importi in realtà una santissima mazza? Che quel che realmente essi vanno cercando non è che la fine della presenza israeliana in Medioriente? Che il reale obiettivo di costoro non sia una Palestina finalmente restituita ai Filistei, ma la distruzione dello Stato di Israele e lo sterminio del popolo ebraico?
Equivale a una laurea in vigliaccheria magna cum laude, il progetto di moltiplicare oltremisura le sofferenze dei Gazei pur di addensare nuovo odio sul capo di Israele, colpevole solo di aver trasformato in un giardino il territorio da essi amministrato, anziché in un triste e invivibile immondezzaio.
Per qual motivo la Cina, che pure ha saputo fare di Addis Abeba la Manhattan d’Etiopia, costruendo autostrade, grattacieli, industrie, metropolitane sopraelevate e linee ferroviarie veloci, si è ben guardata dal fare altrettanto a Gaza? Che cosa son stati concretamente capaci di fare, per i Palestinesi, i governi nababbi di Abu Dhabi, Dubai, Doha, Istanbul, Baghdad, Teheran, Riyad?
Zero su zero.
Ancor più vigliacchi di costoro son gli spaccavetrine nostrani, che invadono le strade e le piazze delle capitali occidentali al grido di «Muoia Israele!». Quasi che un mondo senza Israele potesse render migliore la loro triste vita, ingrassarne le tasche, renderli più «liberi». In una parola, dar vita ad un reale «progresso» anziché ad un irreversibile regresso. In direzione di quel lontano 1948: quando, dopo quattro secoli sottomissione ai Turchi ottomani, i Palestinesi stavano sul punto d’esser spartiti tra la Gran Bretagna e la Francia. Vincitrici dalla Grande Guerra e ben determinate ad asservirli.
Non proprio un paradiso terrestre.
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Quando le armi iniziano a parlare, è perché gli uomini non hanno più niente da dire.
Quando gli uomini ricominciano a parlare, è perché le armi non hanno più niente da dire.
Son state per prime le armi dei Palestinesi di Hamas, a parlare. O meglio: a ragliare, vista l’indiscriminata quanto ingiustificata ferocia della strage perpetrata.
Sono dunque i Palestinesi, evidentemente, ed i loro interessati sostenitori, a non aver più niente da dire.
Avrebbero potuto parlare con la lingua dei fatti, mostrando al mondo i risultati della loro operosità, dei loro studi, del loro lavoro. Ma dal 2005 (l’anno della cacciata dei civili e dei militari Israeliani dalla Striscia) ad oggi, diciotto anni di Storia paiono esser passati invano: la qualità della vita dei Gazei non è migliorata di una virgola, anzi, è tragicamente peggiorata. Solo la rabbia è cresciuta.
E mica contro quei Paesi amici che, con uno schiocco delle dita, avrebbero potuto donar loro sicurezza e abbondanza, ma contro Israele: il genitore troppo presente che pure nel 2005 ha avuto il buon senso di andarsene da casa e metterli alla prova, lasciando ai Palestinesi la facoltà (e la responsabilità) di mostrare al mondo il loro valore.
Zero su zero.
Incapaci di progredire e persino di amministrarsi, in cerca di qualcuno o qualcosa a cui addossare ogni colpa, bene han pensato di penetrare di soppiatto in casa del vicino e pugnalarlo nel sonno.
Colpito, ma non ucciso, Israele ha impugnato il bastone, e ancora medita la qualità e la quantità della punizione. Che sarà necessariamente commisurata all’offesa ricevuta, così come i testi sacri impongono. Dunque inesorabile ed estremamente violenta.
Per adesso, gli irriconoscenti assassini resteranno chiusi in camera e senza cena. Più tardi, presumibilmente, saranno cacciati per sempre da casa.
Solo allora, quando le armi non avranno più niente da dire, verrà il tempo delle parole.
Forse.
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