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Mediatori in Medioriente

Trump ha «fatto» la pace a Gaza?

La pace a Gaza c’era già. Dal 2005. Da quando il governo israeliano allontanò con la forza i propri coloni per lasciar spazio alla popolazione locale. 

Ed è durata quasi vent’anni. Fino a che il governo della Striscia, guidato dalle bande terroriste di Hamas in perenne lotta tra loro, ma unite dall’odio verso il vicino Stato ebraico, ritenendo insufficienti i quotidiani lanci di razzi e missili oltre confine, puntualmente intercettati o ignorati dagli Israeliani, armarono una consistente parte della loro popolazione affinché invadesse il Paese vicino, massacrando senza pietà chiunque incontrasse, senza alcuna distinzione tra vecchi, donne, neonati e bambini, e neppure tra Israeliani e stranieri, tra amici e nemici, tra ebrei e musulmani, o cristiani. Tant’è che a farne le spese furono in gran parte quei sostenitori della causa palestinese, giunti da ogni parte del mondo, raccoltisi a ridosso del confine con la Striscia per manifestare con canti e balli la loro vicinanza. Quasi una sorta di flotilla terrestre ante litteram

La pace c’era. A romperla in mille pezzi è stato Hamas, l’invasore. Forte del sostegno di oltre un milione di seguaci in patria e dell’inesauribile fiume di denaro proveniente da Iran, Siria, Libano. 

Chi rompe paga, e il solo a dover pagare sarebbe dovuto essere Hamas. Ma così non è stato. Perché mentre i massimi dirigenti di Hamas trovavano facile rifugio sui campi da golf e nei resort di Doha, sotto le bombe è invece rimasto quel milione di seguaci che pure aveva festeggiato in piazza i massacri del 7 Ottobre. Ignorato dal governo in fuga e così costretto all’esilio e alla fame. 

Sarebbe stato sufficiente restituire alle famiglie le centinaia di Israeliani e stranieri rapiti durante l’invasione del 7 Ottobre, ma i golfisti di Hamas se ne son ben guardati: nemmeno i soldi degli amici sciiti potevano valere quanto la moneta di scambio costituita dagli ostaggi. Vivi o morti. 

Distrutto il Paese che mai è stato in grado di governare, Hamas butta oggi sul piatto quell’ultima moneta rimasta: gli ostaggi. Chiedendo in cambio non soltanto la propria salvezza, ma anche la liberazione di duemila terroristi e combattenti, con la possibilità di riarmarli. 

Chi rompe, a parer loro, non è tenuto a pagare. Anzi: pretende che a pagare siano gli invasi e non gli invasori. Lasciando agli invasi il compito di ricostruire il Paese e nutrire la popolazione. Affinché il buongoverno di Hamas possa distruggerlo una seconda volta. 

È questa la «pace» di Trump? 

Se lo fosse, sarebbe in realtà una resa: un pubblico riconoscimento dei terroristi di Hamas. 

La speranza del mondo è che sia invece la pace non del lontanissimo dittatore americano, ma del ben più vicino Moḥammad bin Salmān, giovane principe saudita da anni impegnato nella modernizzazione del proprio regno, intento a riproporre su più larga scala il medesimo modello vincente dei confinanti Emirati. Conscio com’è che le risorse petrolifere non dureranno in eterno, e che nel mirino del temibile Iran sciita non c’è soltanto l’israeliana Gerusalemme, ma anche le saudite Medina e La Mecca.

Solo una forte alleanza sunnita, dall’Egitto alla Giordania, potrebbe efficacemente pacificare le terre che premono sui fianchi del piccolo Stato ebraico, rafforzando quel fronte settentrionale sul quale si affacciano i Paesi un tempo controllati dall’Iran: Libano, Siria, Iraq, col fattivo appoggio della Russia.

Un disegno nel quale difficilmente Hamas e il suo milione di seguaci potrebbe avere un qualsivoglia ruolo. Se non quello di prigionieri a vita.  

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