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Nani a confronto

Quando ti rendi conto che un quotidiano di destra come il «Corriere della Sera» è infinitamente più progressista e molte spanne più democratico del piddì, la geometria, che è una scienza esatta, non ammette che una sola possibile soluzione: il piddì è collocato più a destra del giornale della Destra. E per conseguente corollario, il piddì non è più un partito «di sinistra». 

L’evidenza è nei fatti. Come potrebbe dirsi «democratico» un partito che antepone qualsiasi minoranza, fossero anche gli ultimi cannibali della Nuova Guinea o gli orsi del Trentino, alla maggioranza, spina dorsale di ogni vera democrazia? 

E come potrebbe definirsi «progressista» un partito che combatte per principio qualsiasi idea o azione che possa anche lontanamente comportare un reale passo avanti per il Paese, che si tratti della prima ed unica ferrovia in grado di permettere ai grandi treni container di varcare le Alpi (TAV), o del ponte sullo Stretto, o della modernizzazione dei trasporti marittimi verso le Isole, ancora affidati ai vecchi traghetti merci?

Scomparso in Occidente il Proletariato, nato con l’Età Industriale e felicemente estintosi insieme ad essa, l’antico progetto marxista-leninista non ha più alcun fondamento su cui reggersi. Neppure in quegli Stati dove, per via elettorale o rivoluzionaria, riuscì comunque in passato ad affermarsi.

Resterebbe, in Italia, il prezioso insegnamento gramsciano, che pone al centro del disegno politico l’elevazione culturale, sociale ed economica delle masse. Mai così necessaria, in un sistema dove una maggioranza di asini non può che eleggere un proporzionale quantitativo di propri simili. Ma nessun partito o persona dotata di pensiero mostra oggi d’aver alcun interesse nel riproporre gli scritti del grande Sardo e farli propri.

Assai più comodamente, rubando il mestiere alla Chiesa, c’è invece chi in Italia si è illuso che basti sostituire al Proletariato i non meglio definiti «poveri» per vivere ancora di rendita sui testi sacri dello scomparso marxismo-leninismo. 

Scordando tuttavia che, a differenza del Proletariato – vera classe sociale unita da comuni sogni e sofferente di una comune oppressione, ammucchiata sotto i medesimi capannoni e con gli stessi orari di lavoro, priva di ogni minima formazione professionale o culturale indispensabile per liberarsi dallo sfruttamento – se i poveri son tali non è sempre (non lo è quasi mai) per colpa altrui, ma spesso e volentieri per colpa propria, schiavi di tutti i vizi o nemici giurati della società e di ogni attività che possa comportare un qualsiasi impegno e/o fatica. 

È una distinzione scritta a chiare lettere tra le pagine di Karl Marx, quella tra Proletariato e Lumpenproletariat («proletariato straccione»), fondamentale per definire e circoscrivere la classe proletaria nell’esatto momento in cui essa si affacciò sul palcoscenico della Storia. 

Il Proletariato, vittima dello sfruttamento insito nel modo di produzione dell’Età Industriale, è cosa ben diversa da quell’altra folla indistinta che Marx definisce invece come un mucchio di «vagabondi, galeotti, evasi, imbroglioni, bari, accattoni»; Lenin di «servi dei padroni, senza idee né princìpi»; Stalin di «fannulloni, vagabondi, questuanti, senza partito». 

Personaggi i quali, proprio perché «senz’arte né parte», non soltanto non dispongono di un sapere (arte) che consenta loro di mantenersi in vita, ma neppure hanno alcun interesse o convenienza a schierarsi a destra o sinistra (parte), non inseguendo altro che il proprio vantaggio immediato, sia esso in veste di (misera) elemosina che in forma di (falsa) promessa. O anche di (temporanea) licenza: come quella di saccheggiare negozi e supermercati, occupare immobili altrui, distruggere pubblici monumenti e pubblici edifici. 

Che individui del genere siano comunque titolari del diritto ad esser mantenuti in vita (diritto «umano») è sin dall’Ottantanove una legge scritta o non scritta di tutti i sistemi politici occidentali: repubbliche, federazioni o monarchie che essi siano. E a ciò provvedono sia le istituzioni pubbliche che quelle private. Ma non per questo può esser riconosciuto al sottoproletariato un innato diritto a comandare e ad imporre con la forza i propri voleri.

Aiutarli a sopravvivere non è in nessun caso un gesto «di sinistra» – così come «di sinistra» non sono l’Opus Dei, le Dame di San Vincenzo, i Rotary, i Lions, che nella beneficenza operano da decenni – ma solo un dovere umanitario. 

Spacciare i poveri per classe sociale oppressa, destinata ad affermarsi per via rivoluzionaria e governare il mondo, non è un pensiero «di sinistra», ma solo un’indigestione di stupidità: nessuno «opprime» i poveri (anzi: è un dovere aiutarli), nessuno impedisce loro di elevarsi fino ai gradini più alti della scala sociale. Ma nessuno può considerare la povertà in sé un «valore». Se non quella religione evangelica che tuttavia, quando predica che «gli ultimi saranno i primi», riserva quel traguardo ad un tempo indefinito dopo la morte. E a patto che il povero abbia obbedito in vita ai comandamenti di quei medesimi religiosi. Ossia di coloro che la sinistra (quella vera) sognava di veder rinchiusi tra le mura di San Pietro quando si fosse avverato il sogno che accompagnava in musica ogni corteo: «Il Vaticano brucerà, con dentro il Papa. E se il governo non vorrà, rivoluzione!».

Nel terzo millennio, dovesse mai bruciare il Vaticano, non avrà dentro soltanto il Papa, ma anche il piddì e quel movimento a cinque zampe che dei poveri han fatto la loro (interessata) bandiera. Nell’illusione di poterli nominare supplenti di quel Proletariato che (in Occidente) non esiste più. 

Resta una domanda. Una, ma dirimente. 

Se non esiste più un Proletariato da indirizzare verso il Sol dell’Avvenire, fino all’inevitabile vittoria scientificamente predetta dal filosofo di Treviri, in quale direzione dovrà allora orientarsi l’azione di un partito che voglia credibilmente definirsi «di sinistra»?

Scomparsi gli oppressi da redimere, il solo obiettivo caratterizzante e determinante di una politica «di sinistra» non può che essere il Progresso. Inteso in tutti i molteplici aspetti. 

Non soltanto il Progresso (facile, facilissimo, perché teorico) di una maggior tutela dei diritti delle minoranze, ma anche quello (difficile, difficilissimo, perché concreto) del miglioramento della qualità di vita delle maggioranze. 

Le strade senza buche, i treni in orario, i telefoni che funzionano, l’acqua corrente nelle case, non devono restare la bandiera stracciata di un neofascismo ricco di menzogne e parole altisonanti quanto povero di fatti concreti. Devono diventare il medagliere di una sinistra in primo luogo di buongoverno, in grado di elevare l’Italia intera al rango di nazione sviluppata e favorirne l’ingresso a pieno titolo in un futuro Stato Federale Europeo.

Il Progresso dovrà essere la sola discriminante di una vera sinistra. Un domani che sia migliore dell’oggi e un dopodomani che sia migliore del domani. 

Dov’è l’Italia dell’automobile e delle autostrade? Dove l’Italia della prima meritoria televisione pubblica? Dove il grande cinema del Neorealismo e della commedia all’italiana? C’è ancora qualcuno capace di costruire un solo chilometro di strada o dieci metri di marciapiede? Perché si impedisce l’ammodernamento di strutture indispensabili al turismo come i trasporti, le concessioni balneari, gli alberghi di catena? Perché si vieta ai porti italiani di operare, bloccando la costruzione di quelle infrastrutture (TAV) essenziali per la loro sopravvivenza? Perché ci si oppone alla costruzione del Ponte sullo Stretto, che trova la sua prima utilità proprio nel suo essere inutile, così come ogni prezioso gioiello lo è per chi lo indossa?

Non passa per i bonus a pioggia o per le dimensioni dei fazzoletti arcobaleno la sostanziale differenza tra il neofascismo e la sinistra, ma tra chi si spende per un vero, autentico, concreto progresso sociale, culturale, economico, normativo e chi, all’opposto, ad esso si oppone. Tra chi preme sull’acceleratore dell’azione e chi invece sul freno della reazione.

Ma che dire di un Paese dove una vera sinistra non esiste, e quel che ci è dato vedere non sono un Progresso che corre ed un Regresso che frena, ma solo due frenatori intenti a frenarsi a vicenda? Quella sinistra ping-pong che altro non sa fare che respingere il colpo dell’avversario, senza mai andare a punti? Ricca di risposte ma priva di qualsiasi proposta? Impantanata nella nostalgia della grande politica che più non c’è, speculare a quell'altra nostalgia che similmente anima i competitors neofascisti oggi al governo?  

Due frenatori non posson dar vita a nient’altro se non ad un Paese fermo, parcheggiato in attesa di tempi migliori, facile preda di vandali e ladri, inutile a sé ed a quanti lo circondano.  

È davvero questa l’immagine che l’Italia vuol dar di sé al mondo? Quella di un monumento al suo non sempre illustre passato, pietrificato da incapacità, inadeguatezza, ignoranza, presunzione, paura d’agire e sempre più corte vedute?

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