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La rivolta dei papponi

È nel secondo giorno della creazione che il nostro Capo ebbe la splendida idea di creare la luce, e nel terzo il mare, ma è solo in epoca più recente che alcuni umani, appartenenti alla diffusa specie delle vulpes praedatoriae, han pensato bene di impossessarsene per trarne facili e sempre più lauti profitti.

Nacquero così le concessioni balneari, con le quali uno Stato sovrano ha consentito a numerosi esponenti della predetta genìa di recintare ampi tratti di non più pubblica spiaggia per metterli a frutto con sterminate piantagioni di ombrelloni. Tutto ciò a fronte di un modestissimo compenso (per lo Stato), di tariffe sempre più alte (per i cercatori d'ombra), di servizi sempre più scadenti (perché creare nuove attrattive, se bastano quelle del mare e del paesaggio, gentilmente offerte dal Creatore?). 

Così, mentre il mondo è progredito a passi da gigante, osservando compiaciuto l'evolversi del gettone telefonico in smartphone, della bussola in GPS, del televisore in maxischermo, dei treni lumaca in veloci gazzelle, negli stabilimenti balneari italiani nulla è cambiato rispetto a cinquant'anni fa: due sdraio, qualche ombrellone e tanta brutta musica a vanvera (quanta ne basta per guastare il riposo) intorno a un lurido ma affollatissimo baretto che spaccia panini tossici, birra calda e gelato squagliato a prezzi da ristorante stellato.

Il business è assai redditizio, perché mentre la farraginosa burocrazia della pubblica amministrazione impiega decenni per adeguare (quand'anche decida di farlo) le tariffe delle concessioni, il concessionario impiega invece mezzo minuto per aumentare il prezzo del biglietto. Non solo di anno in anno, ma di mese in mese, col procedere della stagione. 

E non sono soltanto i prezzi, ad aumentare. I dati ufficiali del 2021 mostrano una crescita del 12,5% delle concessioni, la cui superficie oltrepassa in alcune regioni il 70% delle spiagge disponibili. 

Nell'intento di regolamentare questa crescita incontrollata, che potrebbe presto condurre ad una privatizzazione della totalità del demanio marittimo, una direttiva dell'Unione Europea del 2005, recepita e trasformata in legge dal Parlamento italiano nel 2006 (dicesi sedici anni or sono, quanto basta per portare in terza liceo un neonato) ha stabilito che tutte le pubbliche concessioni, incluse quelle balneari, debbano esser poste a concorso. E che vinca il migliore. 

Facile a dirsi, in un Paese ad economia paleofeudale dove le imprese si trasmettono di padre in figlio, con il figlio solitamente un pelino peggiore del padre. Dove da una concessione da 90€ annui se ne possono agevolmente trarre 900.000 di profitto netto. E in soli tre mesi. 

Così, tanto la direttiva che la legge han presto fatto la fine di tutte quelle altre norme che l'Unione pretenderebbe di imporre agli Italiani ma che l'Italia si onora di disattendere: dal casco per gli operai stradali al copricapo per i banconieri al bar.

Con una differenza. Che stavolta ad esser danneggiate dalle italiche inadempienze sono anche quelle imprese comunitarie che legittimamente ambirebbero a mettersi in gara nei concorsi. Che però non si fanno. Così il gioco si è fatto serio, e l'Unione ha subordinato una cospicua parte dei promessi finanziamenti a fondo perduto del PNRR al rispetto delle disposizioni comunitarie, divenute legge dello Stato. Il governo è pertanto giunto a un compromesso e ha accettato di mettere a gara le concessioni, ma soltanto dal 2024, così da consentire agli attuali beneficiari di prepararsi a concorrere.

Immediata è partita la protesta dei cosiddetti «operatori», titolari da generazioni di recinzioni balneari ottenute coi favori o con la forza, con la corruzione o con l'abusiva occupazione di fatto. 

Alla testa della rivolta si sono immediatamente accomodati gli italici partiti del NO (praticamente tutti, o quasi), a partire da quelli che dagli stabilimenti balneari, consonamente svestiti, lanciavano un tempo comizi e convocavano conferenze stampa. A difesa, sostengono, dei «cospicui investimenti» (traduzione: un centinaio di sdraio e ombrelloni che una sola ora d'affitto ripaga del costo d'acquisto) e della «qualità del servizio» offerto. Qualità che, se fosse davvero tale, non avrebbe certo timore di cimentarsi in un pubblico concorso. 

La verità è, ahinoi, ben altra. 

Nella lingua italiana c'è un termine ben preciso per indicare coloro che sogliono arricchirsi sfruttando senza lavorare l'altrui bellezza. Nello specifico caso quella del nostro (pubblico) mare e del nostro (pubblico) paesaggio. 

La corretta definizione che tutti i dizionari porgono è quella di «lenone», nell'espressione più elegante. Meglio nota come mezzano, manutengolo, prosseneta, magnaccia, pappone, protettore, ruffiano, sfruttatore. In quella meno elegante. 

La difesa del lenone già la conosciamo: — Ma come! Io amo il nostro bel mare e il nostro bel paesaggio. Anzi! Col mio lavoro spendo la vita per valorizzarli e proteggerli! 

Ma si tratta di una protezione non richiesta, pagata a caro prezzo. 

Dimentica, il pappone, che un vero amore non può che essere reciproco e frutto di una libera scelta. 

Così come spetta a ciascuna persona il diritto di decidere come e con chi accompagnarsi, allo stesso modo anche la spiaggia ed il mare dovrebbero potersi altrettanto liberamente scegliere il concessionario a cui affidare la propria bellezza e la propria salute. E il solo mezzo a loro disposizione per farlo, è quello del pubblico concorso. Grazie al quale saranno essi, il mare ed il paesaggio, a scegliere il migliore fra i loro tanti aspiranti tutori, e non invece un qualsiasi malintenzionato a impadronirsene. 

Spetterà ora al Parlamento, richiamato per l'ennesima volta dal governo ai propri doveri, scegliere tra la via del progresso e quella di una definitiva rinuncia ai finanziamenti PNRR, destinati ai molti, pur di favorire ancora una volta il malaffare dei pochi.  

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