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La rivolta dei cowboys

L’America si prepara alla guerra.  A meno di un mese dall’insediamento del secondo governo Trump, la squadra del presidente somiglia sempre più alla corte di un sultano che non a un governo federale, attento alle necessità dei cinquanta Stati che ne fanno parte.  Con la sola esclusione dei fondamentali ministeri degli Esteri e del Tesoro, affidati ai due soli esemplari di specie umana presenti nella squadra (Marco Rubio e Scott Bessent, ha affidato ogni altro dicastero ad una schiera di burattini pronti a parlare con la sua voce, imitare le sue smorfie ed esporsi al suo posto.  Così ha voluto l’America. Forse conscia del fatto che per scontrarsi contro autentici sultani, come da sempre lo sono Putin, Kim Jong o Xi Jinping, non esista altra salvezza se non quella di contrapporgli un altro monarca assoluto. Possibilmente più forte di loro. Come sperare altrimenti di vincere, contro uomini in grado di decidere in pochi secondi, quando le procedure democratiche soffrono invece dell’inevita
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Tra il non dire e il fare, c'è di mezzo il mare

Putin affila i missili. Un ipersonico Oreshnik costa quanto una villa a Portofino ma dura molto meno. Distrugge quanto sei bombardamenti aerei ma, soprattutto, lo lanci dal comodino del letto e non rischi la pelle. Anzi: non rischi nulla. Se non che qualcuno te ne tiri di rimbalzo uno più grosso.  Tante spese e tanto affanno per metter le mani su uno staterello come l’Ucraina, povero, disarmato e ventotto volte più piccolo della santa madre Russia? Se fosse vero, ci sarebbe da interrogarsi non solo sulla lucidità mentale di Putin (offuscata da un pezzo) ma anche su quella dei generali e dei reggibanana che gli ronzano intorno, neppure in grado di comprendere quale figura barbina sia quella di un orso gigantesco che in mille giorni non riesce a divorare un piccolo scoiattolo. Dev’esserci dell’altro. E quell’altro, come già ipotizzato altrove , è quell’unico bene che alla Russia manca, e che neppure è in grado di comprare: il mare. O meglio: i mari. Il Baltico, il Mar Nero... Magari un p

Mala tempora

Son tempi di guerra. Da sotto i cespugli compaiono gli uomini di guerra, in pieno assetto di guerra. Ed in America è subito Trump.  Vecchio, ignorante, rancoroso, totalitario, violento, maleducato, irrispettoso, misogino, volgare, incapace di articolare un discorso compiuto, ma impaziente di mordere e combattere.  Contro chi?  Contro chiunque. Perché chi cerca lo scontro non sceglie l’avversario: gli si lancia addosso, chiunque esso sia, e lo azzanna. Come fa qualsiasi belva feroce.  Col traballante Biden, è stato un vincer facile. Con Kamala, impastoiata dal dilagante woke ma ferma incarnazione della donna americana, più difficile. Ma infine è accaduto quel che nessun uomo di senno avrebbe osato prevedere (i mercati e gli investitori invece sì): la Casa Bianca dovrà per altri quattro lunghi anni sopportare il rumoroso e maleodorante ospite, ed il Pulsante Rosso ritrovarsi addosso il pruriginoso dito.  Carburante della vittoria è stata come sempre la paura. Ci vogliono mille fessi per

Il malgoverno

Chiunque abbia ultimato con successo almeno la scuola media, non può non sorridere nell’udire gli strepiti di chi ancora è alle prese con gli studi elementari, ed accusa i magistrati di inseguire, con le loro azioni, oscuri fini di natura politica.  Verrebbe da dir: da qual pulpito! Perché, a rigor di Costituzione, non solo ai magistrati, ma neppure a un parlamentare o a un ministro è concesso piegarsi a un qualsiasi interesse di parte.  * * *  Deputati e senatori, una volta eletti, non rappresentano più il partito che li ha candidati, ma l’intera nazione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato» (Cost., art. 67). Senza doversi sentire in debito nei confronti di una qualsiasi formazione politica. Movimento o partito che sia.  In conseguenza dell’art. 67,  non è concessa ai partiti alcuna cittadinanza in Parlamento, dove in luogo d’essi agiscono i Gruppi Parlamentari, ai quali ciascun deputato è libero o meno di aderire, an

I mulini e il vento

Si sveglia e insorge il presidente di uno dei due rami del Parlamento: quello che di norma se la dorme e se la russa.  Indossa l’elmo, imbraccia la lancia, innalza lo scudo.  Che è successo? È successo che il suo nome è comparso, insieme a quello di centinaia di migliaia di Italiani, in un traffico (a pagamento) di dati personali e riservati raccolti da un’agenzia investigativa privata e pronti ad esser rivenduti in forma di ricatti o di denaro: due valute equamente convertibili.  Un «dossieraggio», come un ardito neologismo lo definisce. Quel che tuttavia consegue l’effetto di render l’illustre vittima assai simile ad un vano quanto poco temibile donchisciotte, è l’inconsistenza del bersaglio contro cui egli con tanto animo si scaglia: la stampa, i «giudici», l’opposizione, le «sinistre»...  Tutti! Tranne il Governo, che di tutta la vicenda, invece, per quanto incolpevole è comunque per sua stessa natura responsabile.  Lo è perché è mestiere proprio del Governo (esecutivo) quello di r

Mano de piuma

Beffa albanese, per quei maestri d’espulsione che da quel Paese rischiano infine di restarne espulsi. Una sentenza del Tribunale di Roma, che blocca il rimpatrio dei fuggiaschi temporaneamente ospitati in Albania, sgonfia il palloncino della mano de fero (che puntualmente si rivela invece de piuma ) e ridicolizza un governo sempre pronto a latrare e mai seriamente a mordere.  Come molti (tutti?) i governi degli anni passati, anche l’attuale marziale compagine si è sempre tirata indietro dai propri doveri di potere esecutivo, preferendo sostituirsi al Parlamento come organo legislativo e scriversi da sé le leggi, piuttosto che applicarle. Senza peraltro neppure conoscere da che parte si cominci a scriverla, una legge, e sempre nella speranza che essa prima o poi si applichi da sé. Senza alcun intervento del potere esecutivo. Perché abbaiare rassicura tutti (alto latrato = governo possente). Mordere per davvero, invece, aliena  il voto di chi quei denti ha dovuto subirli.  Un po’ come a

Tra il fiume e il mare...

A Dubai gli Emiri emirano, gli Sceicchi sceiccano, gli evasori italiani se la godono, i Russi esclusi dai luoghi esclusivi ciucciano vodka e tirano coca, i lavoratori immigrati fanno tutto il resto.  Negli Emirati, gli stranieri impiegati nel tessuto ricettivo e produttivo sono il 90% della popolazione residente. Più della metà proviene dal subcontinente indiano (India, Bangladesh, Nepal, Sri Lanka). Marginali le presenze arabe (4% dall’Egitto, 5% dall’Iran, meno del 5% da Siria e Giordania).  Le paghe sono il doppio di quelle italiane. I Palestinesi in fuga dall’«oppressione» israeliana dovrebbero far la fila per chiedere di entrare. Invece, inspiegabilmente, negli Emirati non c’è alcuna quantificabile presenza palestinese. Come peraltro neppure in Egitto, dove si ferma allo 0,6% della popolazione, o in Arabia Saudita (1%). Le percentuali tornano visibili ad occhio nudo solo in Siria (3%) e in Libano (8%).  I Palestinesi vivono per lo più in Israele, dove rappresentano il 29% della po