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Morti di fame?

Un Paese di morti di fame. Questa è l’Italia che amano raccontare politici e partiti (tutti), pronti a volgere a loro vantaggio l’insoddisfazione di chi già molto ha, ma che ancor più vorrebbe. 

Cinquantotto milioni di indigenti impossibilitati mettere insieme il pranzo con la cena.

A chi obietta che il 74% degli Italiani vive in un’abitazione di proprietà (Confedilizia, 2024), o che il 90% dei 45 milioni di adulti in età da patente è proprietario di un’auto, il politico atteggiato a benefattore del popolo risponde inventandosi nuove fantasiose etichette sociali: forse non esistono più i «poveri» (definizione palesemente inopportuna quanto indifendibile), ma ci sono pur sempre i «nuovi poveri», gli «svantaggiati», gli «emarginati», i «relativamente poveri»...  Fino al forzato ossimoro dei «meno abbienti»: abbienti e possidenti, certo. Ma che potrebbero avere di più!

Se i poveri, in quell’immediato dopoguerra quando ancora ce ne stavano a pacchi, era facile comprarseli con un’elemosina, una cena elettorale, una promessa d’assunzione, un bagliore di sol dell’avvenire o – alla moda partenopea – un paio di scarpe (una prima del voto, l’altra dopo), i meno ma pur sempre abbienti pretendono oggi qualcosa di più: vogliono il bonus. Sull’auto nuova, sui biglietti aerei, sui libri scolastici, sugli arredi, sulla casa. Dove l’«aiutino», passo dopo passo, ha finito col raggiungere la grassa percentuale del 110%: con cento milioni aggiungi una bella piscina alla villa e te ne restituiscono sull’unghia centodieci. Anticipati.

E se una casa non ce l’hai? Se appartieni a quel 26% che vive fuori sede in affitto, o è ricoverato in RSA, o abita una casa popolare? Zero per cento. 

Pagano sempre i buoni, mai i malvagi. D’altra parte, a che mai potrebbe servirti un bonus se sei già buono di tuo? Il bonus serve al malus! Non a Cristo, ma a Barabba.

Se sei buono, magari paghi anche le tasse: hai un reddito fisso e dai a Cesare quel che è di Cesare. Anzi: paghi più tasse del dovuto. Non sul reddito effettivo, come Costituzione impone, ma sull’intera paga. 

Così il pendolare che raggiunge in auto il posto di lavoro, e spende ogni mese i suoi seicento euro di carburante, lungi dal poter detrarre le spese alla pompa (sulle quali ha già versato un buon 60% di imposte), quei seicento euro svaniti nel nulla gli saranno ulteriormente tassati come guadagno, piuttosto che detratti come spesa. E anticipatamente, mica a fine anno. 

Pagano le tasse anche i pensionati, nonostante l’assegno non possa definirsi un «reddito», quanto piuttosto il corrispettivo di un fondo di risparmio alimentato per decenni da cospicui versamenti mensili, non di rado superiori alla metà dello stipendio. 

Artigiani, impresari, professionisti, industriali, commercianti, artisti e non stipendiati in genere (circa il 35% della popolazione, ISTAT) le tasse invece non le pagheranno, o le pagheranno in misura ridotta, o forfettaria. E neppure anticipate, ma posticipate, con possibilità di rateizzazioni, contrattazioni, ravvedimenti più o meno operosi, riduzioni, condoni, dimenticatoi. 

D’altra parte, se già pagano i buoni, perché mai dovrebbero pagare anche i malvagi? 

Esiste poi in Italia una tassazione occulta, anch’essa truffaldinamente mascherata da «sostegno ai bisognosi». 

Chi viaggia in autobus o sulla metro in Europa, paga in media circa 4€ sulle tratte brevi. In Italia da 1€ a 2€. 

Chi paga la differenza? Paga la comunità. Paga il bilancio pubblico. Non solo chi fa uso del mezzo, dunque, ma anche (e soprattutto) chi su un autobus non ha mai messo piede. Come in un condominio dove chi vive al piano terreno sia comunque costretto a versare la quota per l’ascensore. Che non usa.  

Esiste un ragionevole motivo? No. È la politica delle scarpe in regalo. L’illusione di poter viaggiare (apparentemente) gratis come giustificazione dell’infima qualità del servizio.

Poco cambia per chi preferisce spostarsi in auto. Il costo dei parcheggi è del tutto simbolico e rende di fatto inutile uno strumento che dovrebbe tendere a limitare l’uso dell’auto, piuttosto che a favorirlo. 

Pur senza le vette di aree sovraffollate come Manhattan, dove la sosta si paga dai 20$ ai 50$ per ora, o di Amsterdam (10-12€), in tutta Europa un’ora di sosta costa mediamente dai 3 ai 5€. Solo in Italia esistono parchimetri a 1€ o persino a 50c per ora. 

Sì, ma e i poveri? È la sistematica obiezione del politico atteggiato a neofrancescano di destra o di sinistra, che mentre finge interesse per gli agnelli parla invece coi lupi. 

I poveri (quelli veri) non possiedono l’automobile, sarebbe l’elementare risposta. E neppure hanno necessità di salire su un autobus, non avendo alcun posto di lavoro da raggiungere. E per essi già esistono più adeguati strumenti di sostegno e d’aiuto: tessere di libera circolazione, assegni di mantenimento, assistenza dedicata, alloggi popolari, mense di carità. 

Se i poveri fossero quel 99% della popolazione che ogni politico auspica e vorrebbe, quei sussidi sarebbero forse insufficienti. Ma non in un Paese dove i poveri veri non arrivano all’1%, e i sedicenti tali non superano l’8%. Intendendo per «sedicenti» coloro che in Italia sono classificati come «poveri assoluti», ossia quanti possano disporre di un reddito mensile inferiore a quello che l’ISTAT ufficialmente stabilisce in 726€ per una famiglia mononucleare; 1.210€ per una coppia di coniugi; 1,610€ se con un figlio a carico e via crescendo fino ai 2.906€ mensili per una famiglia con cinque o più figli. 

Importi che certo costringerebbero a più di un sacrificio coloro che han scelto di vivere a Milano, ma non certo chi ha deciso di stabilirsi in uno di quei cinquemila piccoli comuni che rendono così attraente tra gli stranieri l’Italia, dove il costo della vita è cinque volte inferiore. 

Chiunque realmente miri al progresso dell’Italia – dunque ogni sincero progressista (per quanto al momento privo di alcuna rappresentanza politica) – dovrebbe come primo obiettivo proporsi di invertire la rotta: far sì che non siano più i buoni a pagare, ma i malvagi.

Far pagare le tasse agli evasori non sarebbe che l’inizio, ed è anche relativamente semplice. Sarebbe sufficiente consentire agli stipendiati di poter detrarre le spese che concorrono alla formazione del reddito, così come ogni spesa necessaria alla conduzione della vita familiare. 

Per i contribuenti sarebbe un giusto risparmio. Per lo Stato un sicuro guadagno. 

Perché se alle famiglie fosse consentito detrarre dalle imposte la spesa per l’idraulico o l’acquisto di un nuovo elettrodomestico, lo Stato perderebbe forse quel 20-23% versato in meno dalle famiglie, ma ne incasserebbe in cambio un buon 35-43% dall’impresa che lo ha fornito. Perché chiunque avrebbe interesse a pretendere la fattura e quindi scomparirebbe (o drasticamente si ridurrebbe) il nero.

Far pagare i servizi a chi li usa, anziché a chi non li usa, è un altro sano principio di equità fiscale.

Se il biglietto dell’autobus ha un costo reale di 4€, lo si faccia pagare. È il prezzo di due litri o poco più di carburante, per chi in alternativa fa in uso dell’auto. Chi poi del mezzo pubblico dovesse farne un uso intensivo, potrà comunque disporre di opportuni strumenti come gli abbonamenti o la detraibilità fiscale. 

In Germania, dove alcune tratte di U-Bahn possono facilmente costare anche più di 12-15€, esiste il «D-Ticket» («Deutschland-Ticket»), che per 58€ mensili (meno di 2€ al giorno) consente il libero uso di tutti i trasporti pubblici sul territorio federale, inclusi i treni regionali. 

Col medesimo principio le strade comunali, provinciali e statali, oggi in Italia le più malandate d’Europa, potrebbero facilmente trasformarsi in un’inesauribile fonte di reddito, se solo si decidesse di farne pagare la manutenzione ai malvagi, anziché ai buoni. Multando chiunque infranga il codice della strada: dal mancato rispetto dei limiti di velocità alla circolazione senza luci, dalla mancata segnalazione di cambio corsia alle cinture slacciate. Le strade italiane non sono, come le altre, rivestite d’asfalto, ma di di banconote. Denaro buttato per terra, in attesa che qualcuno si chini a raccoglierlo.

Le concessioni balneari, ma ancor più quelle minerarie (dalle acque minerali a quelle termali) vanno poste a gara: non solo in obbedienza a una norma comunitaria che anche l’Italia (pur infischiandosene) ha sottoscritto, ma perché è giusto che chi vive della bellezza o della ricchezza altrui sia selezionato tra chi quelle risorse intenda meglio mantenerle, migliorarle e conservarle, non tra i più svegli e i più furbi. 

L’Italia trabocca di risorse che nessuno si degna di mettere a frutto. Un grande albero che una moltitudine di buoni coltiva con amore, sacrificio e fatica, mentre pochi malvagi osservano da lontano in attesa che i frutti cadano a terra, per poi raccoglierli e nutrirsene a sbafo. 

Un albero che potrebbe rivelarsi mille volte più ricco e rigoglioso. Se solo ciascuno se ne occupasse per quanto gli compete. Con sapiente maestria, con amorevole dedizione, con meritevole onore. 

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