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Governo e buongoverno

Non è una questione di soldi: è una questione di uomini: i grandi uomini fanno grandi cose, i piccoli uomini fanno piccole cose. 

È sempre stato così. E non perché i piccoli uomini non ambiscano edificare ardite opere o firmare storici trattati, ma giusto perché non ne sono capaci.  

Mai come di questi tempi, i piccoli, i piccolissimi e i microscopici uomini sembrano aver occupato i più alti scranni del potere, persino in quei pochi illuminati Paesi che avevano sin qui guidato il mondo. 

Individuarli non è difficile: è sufficiente osservarne l’opera. 

Il cattivo pasticcere lo scopri assaggiandone i biscotti, il cattivo governante misurandone gli effetti del malgoverno. Per scoprire che accanto ad un’Argentina straziata dal motopippa in basette, ai milioni di Russi depredati e affamati da un dittatore sanguinario, agli interi popoli incatenati dalle teocrazie del terrore, si aggiungono i cinquanta Stati nordamericani finiti sotto il tallone di un presidente inetto, collezionista di fallimenti aziendali sanati ieri dalle mafie italiane, oggi da quella russa. 

Tra i Paesi europei, infine, incapaci di rispondere unitariamente alle minacce e ai corteggiamenti delle nuove dittature russe, cinesi e americane, soltanto le monarchie sembrano intenzionate a resistere con dignità e determinazione. Forse perché hanno un nome e un territorio da proteggere e tutelare, e son dunque per loro stessa natura necessariamente conservatrici. O forse perché alla voce unica delle dittature può meglio e più rapidamente opporsi solo quella altrettanto unica del re. 

Se, tuttavia, la forma istituzionale repubblicana è stata, sin dalle origini, quasi unanimemente ritenuta superiore a quella monarchica, lo è stato perché mostratasi capace di assicurare una migliore e condivisa selezione qualitativa degli individui posti a capo dello Nazione, evitando gli inciampi di una possibile discendenza di prìncipi incapaci, se non clinicamente pazzi o malati, soggetti ad organismi di controllo esterni al Palazzo. 

Oggi, al cospetto di un prepotente emergere di capi di Stato mal eletti o mai eletti, da più parti intenti a minacciare il mondo col dar libero sfogo ad ogni forma di malvagità, capriccio o inadeguatezza, mentre demoliscono a martellate organismi di controllo istituzionali e non (come la stampa, la televisione, la rete), verrebbe oggi da chiedersi se la settecentesca forma repubblicana non abbia forse fatto il suo tempo, e qualcosa di nuovo e di inedito bolla in pentola, in attesa di un nuovo Montesquieu o di un nuovo Tocqueville che possa dargli un corpo. 

Nel dubbio, o meglio nella dilagante incertezza, le reazioni più scontate di popoli impauriti e confusi son quelle (antichissime) di chi cerca più sicuro ormeggio tra le braccia delle dittature imperialiste («tutti con Putin!»; «aridatece er duce!»; «meglio un uomo solo al comando»), o anche nello splendido isolamento («prima l’Ungheria!»; «prima l’Italia!») e finanche nelle religioni. Incluse quelle laiche di chi si illude di poter risanare il mondo portando in processione qualsiasi stendardo ad essi sacro: sia esso palestinese, iraniano, genderfree, partitico, sportivo, ambientalista o neopagano, accompagnandone il lento percorso con invocazioni e litanie. Puro medioevo. 

Le reazioni non sono di per se stesse soluzioni. Due termini solo casualmente accomunati dalla rima. 

Dalle reazioni nascono i reazionari o i rivoluzionari: due differenti macchine di morte.

Le soluzioni, invece, nascono dapprima nella mente dei risolutori, poi nel quotidiano operare dei popoli che le condividono, e si impegnano a trasformare quei progetti in realtà. 

Dal buon ingegnere, prima ancora che dalle buone braccia, nascono le cose buone. Dal buongoverno prosperano le nazioni.

Selezionare con estrema attenzione questi «ingegneri della società» dovrebbe esser pertanto il primo obiettivo di qualsiasi buon sistema di governo. E se tale asserto è vero, ne consegue che la forma repubblicana ancora dispone di molte più frecce all’arco rispetto a quella monarchica. 

Una monarchia dispone di un solo metodo di selezione dei regnanti: eliminare gli eredi non graditi. Imprigionandoli o avvelenandoli (come in passato) o emarginandoli (come nel presente).

La repubblica ne ha anch’essa uno soltanto: il sistema elettorale. 

Ma anche un sistema elettorale può essere avvelenato o emarginato, rendendolo del tutto ininfluente. 

Può essere del tutto ucciso, come è stato fatto in Italia col rosatellum: un finto sistema elettorale che cancella ogni libertà di voto, impedendo non soltanto la scelta del parlamentare (impossibile per via delle liste bloccate e delle pluricandidature), ma persino quella del partito (forzosamente costretto ad appiattirsi in eterogenee coalizioni destinate ad esplodere un’ora dopo il risultato del voto). 

Il voto può essere anche «emarginato», come accade nella Russia di Putin o nella Cina di Xi Jing Ping, dove l’assenza di oppositori (quelli sì, assassinati o imprigionati) fa di ogni tornata elettorale giusto la ricorrente occasione per una nuova trionfale parata del dittatore a vita.

Un Paese che voglia fare grandi cose non può che ripartire dai grandi uomini. E dunque dalla restituzione di quella libertà di voto, là dove è negata, attraverso un sistema elettorale che lasci all’elettore la massima libertà di scelta, avendo l’accortezza di inserirne in Costituzione le norme, così che nessuno possa manometterle a proprio vantaggio nei pochi giorni che precedono le votazioni.

Se un simile auspicio dovesse beneaguratamente realizzarsi, sarebbe per quel Paese un progresso o un regresso?

A nostro umile parere, indubbiamente un progresso. Un grande quanto necessario progresso.

Stupisce dunque il fatto che ad ostacolare la discussione, prima ancora che la scrittura di una vera legge elettorale, vi siano in primissima fila proprio quelle forze politiche che amano autodefinirsi «democratiche e progressiste», ma che non perdono occasione di mostrare al mondo quanto in realtà esse non lo siano. Né democratiche, né progressiste. 

Si potrebbe forse obiettare che, in tempi di comunicazione «di massa» (mille microfoni per due orecchie) e non più «alle masse» (un microfono per duemila orecchie), potrebbe facilmente accadere che una cospicuo numero di individui condannati all’ignoranza riesca a portare in Parlamento una maggioranza di loro simili. 

Nessuna paura. Quand’anche un Parlamento potesse contare su solo uomo ogni dieci stupidi, quei pochi capaci sarebbero più che sufficienti per aver facilmente ragione dei troppi incapaci.

Non a caso, l’attuale rosatellum è costruito in modo tale da impedire di eleggerne uno soltanto, di quei capaci. E persino quei pochi uomini di valore ammessi in aula per meriti personali, e non per via elettorale (i senatori a vita), sono stati recentemente limitati a cinque (L. Cost. 1/2020) e c’è chi ancora si batte per eliminarli del tutto. Giusto per toglier di mezzo quell’ultimo termine di paragone che aiuta a distinguere in Parlamento i grandi uomini dai piccoli uomini.

Eppure, proprio lì dovrebbe invece risiedere la forza di una repubblica, di fronte alle monarchie di diritto e di fatto (dittature): più grandi uomini al comando non possono non prevalere su un piccolo uomo da solo al comando. 

A patto che grandi uomini lo siano per davvero. E che chi li riconosca come tali possa disporre degli strumenti (elettorali) per elevarli a rappresentare la volontà popolare.

 

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