Chiunque può intravederne i pericoli, nessuno può ignorare la stringente necessità di attraversarlo. Al più breve e con il minor danno possibile.
Se Satana mostra di preferire la bomba all’idrogeno al biblico forcone, il dovere dei buoni è quello di fermarlo, scontrandosi con quei malvagi intenti invece a proteggerlo.
Visto dall’Italia, l’Iran non è che un Paese produttore di petrolio – risorsa destinata prima o poi ad esaurirsi – dove un manipolo di terroristi armati scalzò a suo tempo dal trono lo scià di Persia (1979) per poi spartirsi tra compari il ricco bottino, innestando in tutto il Paese una possente marcia indietro in direzione dell’alto medioevo.
Come in ogni dittatura armata, anche gli ayatollah necessitano di un colpevole su cui scaricare la responsabilità della miseria e del malessere di una popolazione immiserita e schiavizzata. E quel colpevole fu presto individuato nel minuscolo Stato di Israele: un territorio più piccolo della Sardegna, minacciato da un Iran ben 74 volte più grande.
Sorge a tal punto una doverosa perplessità di natura tecnica, prima ancora che politica: se un disegno di legge iraniano del 2020 mira ad inserire in Costituzione l’obiettivo della totale distruzione di Israele entro il 2041, potrebbe tale risultato esser conseguito per mezzo della minacciata arma nucleare islamica?
La risposta è no.
Una qualsiasi arma nucleare moderna, con una capacità distruttiva oltre tremila volte superiore ai due gingilli sganciati su Hiroshima e Nagasaki, finirebbe con l’arrecare irreparabili danni anche (e soprattutto) a quei Paesi arabi confinanti col piccolo Stato ebraico, dall’Egitto alla Giordania, dalla Siria all’Iraq.
Oltre ciò, Israele sarebbe esplicitamente autorizzato a rispondere con il proprio armamento nucleare, col vantaggio di poter colpire con precisione e in sicurezza il solo territorio iraniano, enormemente più vasto e mille chilometri distante.
Si affaccia allora il sospetto che la bomba a idrogeno di Khāmeneī abbia in realtà ben altro obiettivo che non quel lontano francobollo di terra, neppure confinante. Che essa sia in realtà destinata al piccolo affinché il grande comprenda. Ad un Paese ancor più vasto dell’Iran e quasi confinante: l’Arabia Saudita.
Il regno saudita, maggior potenza islamica nell’area, conscio anch’esso del progressivo esaurimento delle risorse petrolifere, alla ricerca di nuove prospettive di crescita ha avviato, sull’esempio degli Emirati, un ambizioso programma di sviluppo commerciale, residenziale e turistico del Paese, pur sapendo quanto ciò inevitabilmente comporti una modernizzazione dello stile di vita dei sudditi, già avviata con l’abolizione del più che trentennale divieto di proiezioni cinematografiche (2017), seguito dalla concessione della patente di guida alle donne (2018).
Cresce così la distanza tra la nuova via «progressista» del regno sunnita di Bin Salman, volto al futuro, e il rigoroso conservatorismo degli ayatollah sciiti, inchiodati al passato. I quali, oltre a rivendicare il controllo della città di Gerusalemme, luogo sacro dell’Islam, non diversamente mirano ad impadronirsi delle città sante di Medina e La Mecca.
Il massacro del 7 Ottobre, portato avanti dai terroristi di Hamas col supporto finanziario e militare dell’Iran, ha avuto quale effetto collaterale quello di allontanare l’auspicata adesione del regno saudita agli «Accordi di Abramo» (2020): dichiarazione congiunta di Israele, USA, Emirati e Bahrein che andava a sommarsi ai precedenti trattati di pacifica convivenza tra Israele, Egitto e Giordania.
L’adesione dei Sauditi, massima autorità nell’area, avrebbe certo avvicinato la definitiva pacificazione dell’area, con l’igienico isolamento delle minoranze sciite ancora attive in Iran e nei Paesi satelliti.
L’intensificarsi, nei mesi passati, dei contatti diplomatici tra USA e Arabia Saudita, potrebbero aver avuto, tra gli obiettivi più nascosti, quello di ritessere i fili strappati degli «Accordi di Abramo», promossi – tra l’altro – dalla precedente presidenza Trump.
A supporto di una tale non peregrina ipotesi vi è certamente l’inspiegabile silenzio degli altri Stati dell’area, pronti un tempo a scagliarsi uniti contro Israele (1948) ed oggi invece mai così taciturni.
Tutti i Paesi arabi trarrebbero innegabili vantaggi da un ridimensionamento del ruolo dell’Iran in Medio Oriente: in termini di stabilità, di sicurezza, di economia, di libero commercio, di qualità della vita.
Che l’Iran sia in perfetta malafede, quando nega di lavorare ad un’arma atomica e d’essere interessato ai soli usi civili dell’atomo, lo dimostrano tre incontestabili considerazioni: a) l’Iran, ottavo Paese petrolifero al mondo, non ha alcuna urgenza di ricorrere al nucleare per produrre ulteriore energia; b) se anche dovesse ritenerla una priorità, imposta dal minacciato esaurimento delle risorse fossili, nulla vieterebbe all’Iran di acquistare in altri Paesi le centrali già pronte. Ad un costo infinitamente minore di quel che comporta invece la realizzazione di propri centri di ricerca; c) se tale ricerca fosse destinata ai soli scopi civili, non si spiega la necessità di portarla avanti in locali nascosti cento metri sottoterra, anziché nelle università, sotto gli occhi del mondo.
E poiché tre indizi fanno una prova, bene ha fatto Israele ad avviare una volta per tutte l’attesa quanto inderogabile resa dei conti con l’Iran – burattinaio di Hamas, Hezbollah e Houti.
Che Israele riesca nel proprio intento non è cosa certa, vista l’enorme disparità di forze. Ma un popolo che cerchi la propria sicurezza non ha altra via se non quella di costruirsela da sé. Prevenendo ogni minaccia e contrastando i nemici.
Chi invece ne uscirà certamente sconfitto è il tentennante inquilino della Casa Bianca, ieri dazi-sì/dazi-no, oggi forse-attacco/forse-no.
Un vero LGBTQ+ del potere: Lascio? Graffio? Bastono? Traccheggio? Quantifico?...
E chi + ne ha, + ne metta.
Commenti
Posta un commento