Così il Parlamento Europeo è sempre stato considerato dagli italici avvoltoi come un’avventurosa alternativa alla pensione, inventata al fine di far sparire anzitempo, con metodi fortunatamente non putiniani, quei compagni di partito più scomodi: promoveatur ut amoveatur.
Lo scenario è radicalmente mutato, a detta di tanti qualificati osservatori.
Il perdurare del conflitto ucraino e la sostanziale condizione di disarmo dei 27 Stati dell’Unione (solo la Francia dispone di una rete di basi estere ed armamenti a lungo raggio), unitamente al tentativo dei 20 Paesi dell’Eurozona di consolidare e proteggere la moneta ad essi comune, ha fatto sì che la serie «A» della politica si giochi adesso in Europa: tra Stati membri filoatlantici e Stati membri antiatlantici; tra Stati interventisti e Stati attendisti; tra Stati favorevoli all’allargamento dell’Unione ed altri contrari; tra Eurofederalisti ed Eurounionisti...
Sebbene il Parlamento Europeo sia un parlamento soltanto di nome e non di fatto (non dispone di alcun potere legislativo, ma solo consultivo), è all’interno di esso che si esprime in prima battuta il parere favorevole o sfavorevole degli Stati alle direttive (non «leggi») allo studio presso la Commissione Europea. È, in poche parole, la voce degli Stati nazionali in seno alle massime istituzioni dell’Unione.
Nel mondo tira da molte direzioni un’aria sempre più incerta. I venti di destra si scontrano con forti correnti che non è onestamente possibile definire «di sinistra»: la dittatura delle minoranze, la cancel culture, l’idolatria della Natura contrapposta alla Cultura, la santificazione della miseria, la superstizione in sostituzione della Scienza: ideali esplicitamente antiprogressisti e dunque apertamente reazionari.
Sullo scacchiere mondiale le cose non vanno meglio, con la spinta revanscista degli ex-Paesi emergenti (ormai prepotentemente emersi) alla cui testa ambirebbe porsi la Russia: Paese al contrario «immergente», piuttosto che «emergente», incapace di produrre alcunché e aduso a pagarsi la vodka con lo sfruttamento intensivo di un sottosuolo che è per superficie il più vasto in assoluto al mondo (17 milioni di mq contro i quasi 10 milioni del Canada, secondo in graduatoria).
Poco credibile come Stato guida, dopo infinite figure meschine e tanti vergognosi crimini di guerra, la Russia si è mangiata il futuro almeno per i prossimi cinquant’anni, simbolo universale dell’umana vigliaccheria. Ma ha scoperchiato, pur senza volerlo, il vaso di Pandora di una globalizzazione che ha visto sinora l’Occidente nel ruolo di software del Pianeta, e i Paesi emergenti (emersi) nel ruolo di hardware, chini a forgiare ed assemblare prodotti ad altissima tecnologia ma disegnati altrove: dagli iPhone alle Jaguar, dalle Fiat all’alta moda. E chi produce di più chiede di contare di più.
Gli USA, dal canto loro, si ritrovano al di là del Pacifico una Cina sempre più ingombrante, fermamente intenzionata a sfidarli tanto in patria (Taiwan) che negli altri continenti, dall’Africa all’India, fino all’Indocina. E un dittatore pazzo, Kim, che semina terrore dal suo minuscolo Paese-sputacchiera.
La vera partita, insomma, non la si gioca più fra nazioni (quelle europee, per inciso, son fra le ultime rimaste tali: le altre si sono in qualche misura federate o confederate) bensì fra entità statuali plurinazionali o imperiali. E una forza politica che voglia contare qualcosa nel proprio Paese, deve poter contare qualcosa anche al livello immediatamente superiore. Che non è, ahimè, per le nazioni europee, il livello federale, dotato di poteri legislativi, esecutivi e giudiziari, ma quello dell’Unione: una rete di trattati multilaterali che lega fra loro quegli Stati che liberamente scelgono di sottoscriverli. Non un condominio, per intenderci, ma poco più di un club.
Mai come nel prossimo 2024, per questi ed altri motivi, le elezioni parlamentari europee saranno vissute (e combattute) con una partecipazione ed un coinvolgimento del tutto inediti in Italia, dove tali consultazioni non hanno mai avuto per strascico se non qualche mezza colonna a fondo pagina da sbirciare frettolosamente sui quotidiani dell’indomani.
No. Stavolta sarà vero scontro: l’Europa di Orbán contro quella di Macron; l’Unione filorussa faccia a faccia con quella filoucraina; i progressisti che guardano al nucleare opposti ai reazionari medievalisti che sognano i mulini a vento.
Saranno inoltre, dopo tanti anni, vere elezioni. Non elezioni-truffa marchiate rosatellum. Si potrà scegliere il candidato e – udite, udite! – persino il partito! E questo non potrà non avere effetti sulle unioni sinora forzate di tanti separati in casa.
I primi a scannarsi son stati Renzi e Calenda, incuranti del fatto che se non verrà modificata la soglia minima del 3% dei votanti, entrambi i loro eserciti rischiano di restarsene al qua delle Alpi. A seguire ci saranno i meloniani (non tutti) contro i salviniani (non tutti). A caccia di radicamento, credibilità ed onore i primi; di impunità, pubbliche concessioni e facili guadagni i secondi. Con ampie probabilità che a Strasburgo finiscano con l’accasarsi in gruppi anche distanti, che poco rispecchiano quell’apparenza di unitarietà così faticosamente raggiunta in Italia.
Ci son poi i due grandi movimenti: l’ormai ex-partito piddì e il movimento a cinque stelle: entrambi a caccia di insuccessi.
Li accomuna il fatto di non sapere neppure loro che cosa realmente vogliano e che cosa davvero essi siano, ma proprio per ciò raccattano i voti di quel grandissimo numero di elettori ugualmente ignari di quanto in verità vadano cercando, se non qualche venti euro di bonus sventagliati a larghe mani dagli armocromisti come dai pentastellati.
Inevitabili le ricadute sul piano nazionale, nel caso dovessero inasprirsi le lotte interne tra fratelli-coltelli: le Meloni in tailleur contro i Salvini in felpa; le Schlein a caccia di minoranze e i Conte in cerca di quattrini... Minori i riflessi sul piano internazionale, destinato a muoversi assai più velocemente che non i guitti nostrani: l’invasione russa non potrà in alcun caso trascinarsi inconcludente fino al prossimo Giugno, la conquista geopolitica e geoeconomica dell’Africa procederà a passo spedito, l’età industriale finirà anche in Cina, dove ha quest’anno toccato il culmine. Il mondo, insomma, cambierà in nove mesi assai più velocemente di quanto possano fare i partiti in corsa per il Parlamento Europeo.
Se un vero scontro ci sarà, sarà quello che opporrà gli Stati più coscienti del nuovo assetto politico mondiale (e meglio preparati alla lunga stagione di guerre che esso a gran voce preannuncia) e gli Stati ignavi, renitenti a qualsiasi laccio o lacciuolo e pronti a saltare senza indugio alcuno sulla sella del (futuro) vincitore. Uno scontro, insomma, sempre più netto e più chiaro tra chi sogna uno Stato Federale Europeo, con pieni poteri in materia di Difesa, Esteri, Fiscalità, Economia, e chi invece traccheggia per mantenere in vita l’attuale sistema regolato da un incrociarsi di trattati, neppure sempre e da tutti rispettati.
Un sistema, va da sé, strutturalmente antidemocratico, dove ogni direttiva non ha alcun valore se non trasformata in legge da parte dei Parlamenti di ogni singolo Stato membro. In base ad un criterio di unanimità che, prima ancora che Montesquieu, ricorda piuttosto i Cavalieri della Tavola Rotonda.
Medievali. Anch’essi.
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