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Riformaggio (con i vermi)

Esistono riforme utili, riforme inutili e riforme dannose. Distinguerle è assai facile: è sufficiente domandarsi: chi, come, quando, perché? Chi le chiede, come intende realizzarle, con quali tempi e per quali motivi. 

Se poi quel che si intende riformare non è una legge o una procedura, ma addirittura quella Costituzione che delinea lo spirito, i fini e l’assetto istituzionale di una nazione, indossare gli stivali di piombo, e con essi procedere, è il minimo che ci si dovrebbe attendere. 

Quali sono in questo esatto momento le riforme più utili ed urgenti per l’Italia? 

Certamente quelle già avviate nel quadro del PNRR, come una modernizzazione del sistema giudiziario che miri insieme all’accelerazione dei procedimenti, alla certezza del diritto e, conseguentemente, ad una maggiore sicurezza per chi opera nel Paese e per i singoli abitanti. E ancora un sistema di controlli a livello centrale che renda di fatto impossibile ogni evasione fiscale.

Fondamentale e improrogabile è poi una legge elettorale condivisa, da inserire una volta per tutte in Costituzione, che restituisca al Paese quella libertà di voto cancellata dal rosatellum e che ponga fine alla vergogna delle leggi ad partitum puntualmente riscritte ad ogni elezione.

Occorrerebbe poi rendere effettiva quella separazione tra i poteri dello Stato sulla quale la Costituzione italiana è saldamente fondata, ma che il controllo partitico ha di fatto limitato, se non del tutto cancellato. È urgente restituire al Parlamento l’originaria funzione legislativa e richiamare il Governo alle proprie responsabilità di esercizio del potere esecutivo: un dovere che il Governo preferisce ignorare o delegare ad altri, magari scaricandolo sugli enti locali, dalle Regioni ai Comuni, che spesso non hanno né la capacità, né i mezzi, né una reale volontà per rendere esecutive le leggi, come dimostra il sostanziale fallimento della regionalizzazione di servizi di interesse nazionale come la pubblica sanità o la pubblica istruzione. 

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Il piano di riforme costituzionali che l’attuale governo si accinge a varare, invece, pare muoversi in direzione esattamente opposta e contraria: senz’altri concreti effetti se non quello di rafforzare l’infiltrazione dei partiti nelle istituzioni e di minare quella separazione tra poteri dello Stato che sin da Montesquieu è l’imprescindibile requisito di qualsiasi regime democratico di ispirazione liberale. 

I provvedimenti fin qui maldestramente emanati dal nuovo governo, inefficaci a contrastare l’illegalità ma efficacissimi nel preservare i privilegi o nell’estendere le possibilità di sfuggire agli obblighi contributivi e/o fiscali, gettano luce su quali siano i reali obiettivi di una parte consistente della maggioranza. 

Mentre si opera per indebolire il Parlamento e limitare l’autonomia della Magistratura, di riforme elettorali si parla solo in termini peggiorativi, come lo è la proposta di eliminare il ballottaggio dalle elezioni comunali. Silenzio tombale, invece, per quanto concerne la libertà di voto nelle elezioni politiche. 

Quanto al Governo, lungi dal ricondurne i poteri nell’alveo dell’originario ambito costituzionale, non soltanto si parla di allargarli, ma di sottometterli al controllo diretto dei partiti attraverso l’elezione diretta del presidente del Consiglio o, peggio ancora, di quel Capo dello Stato al quale la nomina dell’intero Governo è oggi costituzionalmente demandata, ponendo così fine alla forma istituzionale della repubblica parlamentare per dar vita a una repubblica di tipo presidenziale. 

A un tale moltiplicato potere a livello centrale non corrisponderebbe tuttavia un proporzionale incremento di doveri e responsabilità, che anzi verrebbero ulteriormente delegati alle Regioni in un quadro di autonomia differenziata destinato ad inasprire le inaccettabili disparità che ancora oggi affliggono l’Italia. 

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Le opposizioni intanto traccheggiano, combattute tra un facile quanto sterile fuoco di sbarramento – illudendosi di poter in tal modo indebolire l’avversario – o una strizzata d’occhio nella speranza di poter un domani godere di quel potere semiassoluto che i vincitori vorrebbero oggi imporre. 

La maggioranza non è del resto meno divisa. Le differenti anime che la sostengono hanno interessi divergenti. Un po’ come quei gruppi di disperati che, dopo aver occupato una casa, si dividono fra coloro che vorrebbero ripararla, abbellirla e farla propria, e chi si accontenterebbe invece di depredarla e portar via quanta più roba possibile. Magari nella propria Regione. 

La domanda che un elettore può e deve farsi è una soltanto: la riforma istituzionale proposta dalla maggioranza costituisce per la nazione un progresso o un regresso?

La risposta non può che essere una. 

La direzione del progresso è oggi quella di portare a termine l’integrazione europea fino a dar vita a un autentico Stato confederale, con poteri legislativi, esecutivi e giudiziari nelle materie ad esso delegate. Tutto quel che conduce al contrario verso un’ulteriore disgregazione, come l’autonomia differenziata esplicitamente si propone, non è che un regresso. Così come lo è la marginalizzazione di quello che è oggi il solo potere dello Stato ad elezione diretta (il Parlamento) a tutto vantaggio di figure istituzionali non collettive ma individuali, come possono esserlo il presidente del Consiglio, elevato a premier, o il Capo dello Stato. E tampoco lo è l’istituzionalizzazione di fatto dei partiti, associazioni di diritto privato non assoggettate ad alcun controllo popolare, a scapito dei tre poteri dello Stato oggi incarnati dal Parlamento, dal Governo, dalla Magistratura. 

L’augurio è che gli Italiani riservino a questo nuovo tentativo di manomettere i fondamenti della nazione il medesimo trattamento subito prima dal cavaliere d’Arcore e poi dal faccendiere toscano. E che si schierino infine dalla parte del progresso. 

Quello vero.  

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