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Divergenze parallele

Più simili che dissimili fra loro (di parte, ma non «partite») le indebolite forze politiche del nostro stivale vanno a caccia di alleanze. E pure di gran fretta. 

Non certo perché smaniose di stringere nuove amicizie (meglio le inimicizie), ma perché a ciò costrette da un'orripilante legge elettorale che, sul modello Frankenstein, cuce insieme proporzionale e maggioritario, vecchi collegi e Camere smagrite, soglie minime variabili al bisogno e sottrazione del diritto di voto agli elettori. 

La scadenza per la presentazione delle liste è il prossimo 22 Agosto e, prima ancora di carta e penna, si affilano i coltelli. 

È tempo di riposizionamenti. 

Non c’è partito che non rinneghi le vecchie amicizie per strizzar l’occhio alle nuove, ridonandosi perdute verginità mentre dipinge d’oro e di rosa gli improbabili scenari di future e progressive magnificenze.

Pesa su tutto l’ingeneroso confronto fra tanta insipienza e tanta sapienza: quella di Draghi, che è vivo e lotta (non insieme a loro, ma nonostante loro). Quando nessuno, tra i capoccia di partito, ha da proporre un nome spendibile e vincente che possa sostituirlo. 

Lungi dal mettersi a caccia di un novello Prodi (lo sconosciuto ex consigliere comunale democristiano dimostratosi capace di coagulare intorno a sé l’ampio schieramento dell’Ulivo e ricacciare nel 1996 le possenti armate berlusconiane) gli attuali partituzzi del 20% (e giù di lì) si preparano alla battaglia schiacciati tra la necessità di stringere innaturali alleanze e l’incauta presunzione di potercela fare da soli. 

Eppure mai come oggi una condivisa incomprensione del presente pare accomunare questi finti partiti, dove quel che li unisce è decisamente più forte di quel che dovrebbe invece dividerli, separarli, distinguerli, appunto «partirli». 

Così almeno traspare dalla tabella che segue: dove si evidenzia quanto in definitiva convergano le ideologie delle maggiori formazioni, che paiono scostarsi dalla massa solo nel caso dei due partiti-giocattolo di Azione (4%?) ed Italia Viva (2%?): minuscole formazioni a rischio scomparsa, in assenza di un’accorta politica di alleanze. 

Nessuno dei maggiori partiti italiani può dirsi compiutamente «laico». C’è in tutti un’adesione pressoché totale ai principi cristiani, in particolare sintonia con la linea neofrancescana dell’attuale papato, fino agli strumentali eccessi di chi ama farsi ritrarre circondato da madonne e santini, stanco di cuba libre e mohito

Tra i meloniani, forti sono le spinte antiabortiste e antidivorziste. Più a parole che nei fatti, a ben guardare, e tuttavia apprezzate in area vaticana. 

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Tutti i partiti si dichiarano a parole «democratici», santificando con questo termine due particolari aspetti che della democrazia non sono che il contorno, piuttosto che la sostanza: 1) la libertà di voto (che esiste anche nei consigli di amministrazione e nelle assemblee condominiali, per definizione covi di «padroni»); 2) il dovuto rispetto per le minoranze (che alcuni partiti non nascondono di voler trasformare in privilegio).

Elemento fondante della democrazia dovrebbe più correttamente intendersi il «principio maggioritario, in base al quale le decisioni sono prese dalla maggioranza e la minoranza si conforma a esse [Treccani]».

Nessun partito, con l’esclusione degli eremiti renziani, può onestamente sostenere di porre al centro della propria politica le maggioranze piuttosto che le minoranze. Siano esse tassinari o balneari, ius sóla o «poveri», gender mix o cannabis… Assecondare le minoranze, dopo tutto, non costa nulla e ti apre le prime pagine dei giornali. Occuparsi delle maggioranze costa centomila volte di più e nessuno ti si fila: poiché costruire strade e ferrovie o far marciare scuole ed ospedali non è che ordinaria amministrazione. Quotidiano dovere, mica straordinaria impresa. 

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Allo stesso modo non c’è partito che non si proponga ai suoi elettori come «progressista», salvo poi smentirsi nei fatti. 

Ai loro occhi non c'è nulla di meglio, per favorire il progresso, che impedire in assetto da guerriglia la costruzione di oleodotti e gasdotti, porti ed aeroporti, ponti e tunnel, strade e autostrade, reti informatiche e centrali elettriche, inceneritori e rigassificatori.

Non c’è partito che non abbia a questo riguardo i propri personalissimi NO. Qualcuno, per far prima, di NO ne utilizza uno soltanto, ma buono per ogni evenienza. 

Solo i due micropartiti renzocalendiani assumono talvolta, con la dovuta circospezione, atteggiamenti fattivamente progressisti. Incuranti del fatto che una reale crescita del Paese raccoglierebbe ben pochi applausi, privando gli Italiani del passatempo che più amano al mondo: lagnarsi di tutto all’infinito ed accusarne il governo. Meglio se ladro (e pazienza se son tre mesi che non piove: dal 26 Settembre diluvierà).  

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Se poi si parla di Unione Europea, non c’è partito che non si dichiari genericamente «europeista». Soprattutto se c’è da acchiappar denari (a debito, perché quelli a fondo perduto poche amministrazioni si degnano di chinarsi a raccoglierli), ma pronti a dir peste e corna ad ogni direttiva comunitaria che li richiami ad elementari principi di civiltà, come la condanna della tortura o l’obbligo di indire regolari gare d’appalto per la concessione e l’alienazione dei beni pubblici. 

Fra tante forze paraeuropeiste, poi, è quasi impossibile trovarne una che si dichiari «eurofederalista»: ossia favorevole alla costituzione, accanto od in luogo dell’attuale Unione, di uno Stato federale europeo con poteri legislativi, esecutivi e giudiziari sulle materie di interesse comune. E, soprattutto, in grado di dar vita ad un esercito federale che consenta ad Italia e Germania di superare le limitazioni al sistema di difesa imposte dai trattati del 1947, ponendo così fine alla sostanziale condizione di disarmo in cui versa l’Unione dopo la fuoriuscita del Regno Unito.

Solo il partito tascabile di Calenda, anche in virtù dell’alleanza col partito da borsetta della Bonino, pare in qualche misura orientato verso l’obiettivo di uno Stato federale europeo.

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La collocazione atlantica, infine, vede tre dei maggiori partiti apertamente schierati al fianco della Federazione russa: non solo la Lega e il Partito di Conte, ma anche quello del compagno di letto Silviosky. Il quale, seppur ben consigliato di allinearsi sul tema alle idee meloniane, al melone ha infine preferito la zucca: quella di Salvini. Forse nella speranza che qualche fatina gliela trasformi in carrozza, così da potersi trionfalmente ripresentare al governo. Col cocchio.

Resta invece formalmente atlantista, salvo future pressioni dall’interno del partito, la chiassosa sorella dei fratelli d’Italia. 

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Rivolgendo un ultimo sguardo d'insieme alla tabella, il quadro è sconfortante. Il solo vero discrimine pare essere lo schieramento a favore o contro l’alleanza atlantica. E neppure così netto, se si considerano le frange antiamericaniste interne al piddì o quelle atlantiste, seppur numericamente irrilevanti, presenti in forzaraglia. 

Sembra dunque assai probabile che proprio al qua o al di là di quella linea finiscano con l'attestarsi i due schieramenti. 

Col rischio concreto di un temuto governo a trazione bidenmeloniana frenato da un contrapposto parlamento putinsalviniano, con Conte e Berlusca, chierichetti a lato, a servir messa. E il piddì all’opposizione, discettando di bimbi da cittadinare e di cannabis. 

Roba da leccarsi i baffi! 

Mica come con quel perditempo di Draghi…


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