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Di parte, ma non partiti

Fra i tanti italici misteri che quassù ci affanniamo a interpretare e risolvere, uno in particolare rimane per noi assolutamente inspiegabile.

I numeri ci dicono che il giornale quotidiano di gran lunga più venduto in Italia è anche il solo che possa definirsi certamente laico, certamente liberaldemocratico, certamente eurofederalista, certamente governativo, certamente moderato, certamente legalitario. 

Verrebbe conseguentemente da pensare che questo sia l'orientamento politico della maggior parte degli Italiani, quanto meno di quella parte in grado di leggere e di scrivere. Pur tuttavia – e qui sta il mistero – è altrettanto vero che non esiste in Italia un solo partito che possa senza tema di smentita definirsi laico, liberaldemocratico, eurofederalista, governativo, moderato, legalitario. 

Analizzando le posizioni pubblicamente dichiarate e privatamente non dichiarate dell'offerta partitica italiana, siamo giunti alla conclusione che tutti propugnano la medesima ideologia: un parafrancescanesimo di facciata variamente declinato (aiutare i «poveri») che nasconde invece antiche e solidissime realtà di stampo familista-aristocratico. 

Parafrancescanesimo, e non francescanesimo. Perché mentre San Francesco (che sta qua insieme a noi e può confermarcelo) si spogliò del proprio patrimonio (non dell'altrui) per elargirlo agli ultimi, gli italici politicanti preferiscono invece attingere al patrimonio pubblico. Ed avendolo in tal modo prosciugato da molti decenni, non esistano a indebitarsi col mondo intero pur di incrementare il numero altrimenti insufficiente dei poveri: materia prima dei loro successi elettorali. 

Ci racconta ancora, l'amico Francesco, che mentre ai suoi tempi, in piena età feudale, i poveri in Italia rappresentavano il 90% della popolazione, oggi non sono che il 5%. Sebbene a leggere i giornali e a guardare la televisione, e bevendosi tutto quel che raccontano, parrebbe che il 99.99% degli Italiani sia costituito da morti di fame che strisciano pancia a terra sui marciapiedi tendendo la mano a implorare elemosine, non potendo neppure permettersi il lusso di un lurido cappello. Poi, però, trovar posto in ristorante il sabato sera è una mission impossible, le code in autostrada non le fanno certo i pellegrini a piedi, le località turistiche traboccano di villeggianti e così le navi da crociera, per non parlare di stadi, centri commerciali e pubblici spettacoli. 

Ma esiste la «povertà relativa»! Strepitano indistintamente tutti i partiti. Certamente sì. Ma allo stesso modo esiste la ricchezza relativa, nel senso che chiunque a questo mondo può dirsi più povero o più ricco di qualcun altro. Ma definire povero chi circola in Panda anziché in Maserati è un insulto nei confronti di chi davvero fatica a nutrirsi e a curarsi: due diritti che in Italia son garantiti a chiunque. Anche a chi italiano non è. 

Tanta finta attenzione per tanti finti poveri non è che il paravento di ideologie in realtà profondamente antidemocratiche, se è vero che il principio fondante di ogni vera democrazia è il primato della maggioranza sulle minoranze, certamente meritevoli d'esser rispettate e tutelate, ma non per questo privilegiate. 

Ma i partiti san far bene i loro conti: sanno che allisciare il pelo alle minoranze non costa nulla e riempie le prime pagine dei (loro) giornali, mentre far realmente progredire le maggioranze costa mille volte di più e non crea nuovi consensi, perché l'ordinaria amministrazione non è che un atto dovuto, mentre ogni minuscolo provvedimento straordinario passa invece per un inaspettato e sorprendente regalo.

Se è dunque vero che non esiste in Italia un solo partito laico e democratico, ce ne dovrà pur essere qualcuno che possa quanto meno dirsi eurofederalista e governativo!

Assolutamente no. Neppure quei partiti che sostengono il governo possono a testa alta definirsi governativi. Nel migliore dei casi si dichiarano «partiti di lotta e di governo». Secondo la convenienza del momento. Come un cristiano che si dicesse «fedele e infedele», «credente e non credente» a un sol tempo. E mai come di questi giorni ci è dato assistere allo spettacolo di formazioni politiche pronte a scagliarsi animatamente contro il governo di cui fan parte, al quale han più volte confermato col voto la loro fiducia. 

Ci si potrebbe augurare che tanta ostilità verso il governo nazionale nasconda il disegno di dar vita a una qualche forma di governo superiore, di tipo federale, al quale conferire parte dei poteri su materie di interesse comune quali la politica estera, l'economia, la difesa. 

Nulla di tutto ciò: le forze antigovernative (tutte) sono anche rigorosamente antifederaliste (tutte). Richieste di esplicitare un giudizio sull'Unione Europea, tutte si dichiarano fautrici di «un'altra Europa, diversa da quella attuale». Evitando tuttavia di approfondire e precisare il concetto. 

Bene. Saranno allora i nostri partiti, se non altro, moderati e legalitari? 

La risposta è ancora no. Neppure quelli che in Italia si ostinano ad autodefinirsi «destra», come in ogni parte del mondo vengono indicati i partiti di orientamento moderato e legalitario, possono legittimamente dichiararsi tali. Incapaci persino di esprimersi in lingua italiana, refrattari alla giacca e alla cravatta, nemici della proprietà fino a giustificare l'occupazione impunita di edifici pubblici e privati, violenti nel linguaggio e spesso anche nell'azione, contigui alle grandi e piccole criminalità locali, fautori dello statalismo assistenziale e del suo opposto (l'evasione fiscale). 

Verrebbe da pensare che quegli Italiani che affollano le edicole (mostrando preferenza per quel solo quotidiano laico, liberaldemocratico, eurofederalista, governativo, moderato, legalitario) siano quei medesimi che poi disertano le urne. Con comprensibili ragioni, peraltro. 

O ancora che gli Italiani che si recano alle urne sian quegli stessi adusi a tenersi a debita distanza da librerie ed edicole. E la cosa non desterebbe meraviglia. 

Ma se ciò fosse vero, se realmente esistessero due Italie – una che pensa (bene) ed un'altra che vota (male) – entrambe sarebbero in torto. Perché non avrebbe senso coltivare buoni pensieri senza poi coerentemente agire per tradurli in realtà, così come lo sarebbe consentire che a guidare le proprie azioni siano l'istinto o l'impulso del momento, anziché la forza delle idee. 

Pensiero e azione, sosteneva Mazzini. 

Centosessantaquattro anni fa.  

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