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Reporter di guerra

Un giornalista pestato a sangue da un gruppo di facinorosi, difesi dalla seconda carica dello Stato che lo accusa di non essersi dichiarato come tale (versione aggiornata del «non sono io razzista: è lui che è negro») è innanzitutto una contraddizione in termini. 

Perché il mestiere del giornalista è quello di raccontare la notizia, non quello di farsi notizia egli stesso. 

Così, passeggiando per le sempre meno linde e sicure vie di Torino, un giovane reporter del quotidiano cittadino (La Stampa), attento per sua missione anche ai minimi fatti di interesse locale, nota un chiassoso assembramento nella centrale via Cellini, dove rumorosamente si festeggia il sedicesimo anniversario del circolo «Asso di bastoni»: sede locale del movimento Casapound, nato nel 2002, in nome di Ezra Pound, al solo scopo di occupare case e proprietà private per fini abitativi e per attività sociali. Incurante di quell’art. 633 CP che, almeno a parole, dovrebbe tutelare quella proprietà privata un tempo bandiera della destra conservatrice.

Di destra conservatrice, tuttavia, evidentemente non si tratta, quanto invece di destra rivoluzionaria, altrimenti detta «fascista», con riferimento alla disastrosa esperienza del ventennio italiano, da lì esportata in Germania, Spagna, Portogallo e in altre parti del mondo. 

La «Festa della Torino nera» (così era stata annunciata e presentata) non è di quelle che passano inosservate. Fumogeni e fuochi d’artificio sono visibili sin dalla vicina stazione ferroviaria e i cori inneggianti al Duce – tra  casse di birra, bandiere e braccia alzate nel saluto fascista – tengono svegli gli abitanti del circondario, che dalle finestre osservano quel che accade. 

Il giornalista, ritrovatosi per caso testimone di una vicenda di indubbio interesse locale, mette istintivamente mano al telefonino e filma tutto quel che può. 

Immediatamente circondato dai militanti di Casapound, che gli sottraggono il telefono, il giovane reporter è presto sbattuto a terra dove viene preso a pugni e a calci, mentre due tra i più esagitati tentano di strangolarlo. 

Sorgono a questo punto alcune doverose domande. 

Se i festeggianti erano davvero convinti d’essere nel giusto, impegnati com’erano a divertirsi e a stare insieme (seppur con qualche eccesso) avrebbero dovuto mostrarsi ben felici dell’attenzione della stampa, più che soddisfatti della non prevista risonanza che sarebbe stata data al loro evento. C’è chi è pronto a pagarla, tanta pubblicità. Perché, allora, indispettirsene, temerla e preoccuparsene? 

Forse perché non tutto quel che avveniva in piazza era nel pieno della legalità? Forse perché non si trattava di una festa, ma di una sguaiata e minacciosa manifestazione contro veri o immaginari nemici? 

Ma anche in questo caso, nessuno sta più al sicuro, nel mezzo di una battaglia, del reporter di guerra. Gli bastano un elmetto e un giubbino con la parola «Press» per vederlo aggirarsi disarmato tra i combattenti, alla ricerca di quella foto che Robert Capa avrebbe definito «perfetta». E non perché perfettamente illuminata o precisamente a fuoco, ma perché presa da vicino. Da molto vicino. 

Che intendesse forse questo, la seconda carica dello Stato, quando ha accusato il giornalista di non essersi «qualificato»? Che avrebbe fatto meglio a manifestarsi indossando elmetto e giubbino etichettati «Press»? 

Se così fosse, equivarrebbe all’incontrovertibile ammissione, da parte della seconda carica dello Stato, che quella di via Cellini non è stata in realtà una festa, ma una vera e propria guerra. 

E tuttavia neppure di guerra s’è trattato: perché se guerra fosse stata, nessuno avrebbe osato toccare il giornalista, e ancor meno ne avrebbe avuto l’interesse. 

C’è solo un caso in cui ogni giornalista è tenuto a proteggersi e a muoversi sotto scorta, ed è quando indaga su qualche organizzazione criminale d’alto livello, con alte protezioni, come possono esserlo la mafia, la camorra, la ’ndrangheta. 

Il giornalista non teme la guerra. Anzi: ci si butta a capofitto. Il giornalista teme invece gli squali affamati pronti a divorare ogni essere vivente si muova loro intorno, a meno che non sia uno squalo anch’esso, senza rispetto per alcuno, donne, vecchi o bambini che siano, se non per gli squali più grossi di lui. I soli che potrebbero mangiarselo. 

Pestando il giovane giornalista locale, pesce-telecamera nella tana degli squali, forse Casapound proprio questo voleva precisare al mondo. Di non essere una delle tante associazioni culturali votate alla politica, ma una vera organizzazione criminale dedita ad appropriarsi con la forza del patrimonio altrui, pubblico e privato, per trarne il massimo profitto. Pronta a difendere con la forza, fino al tentato omicidio, un tanto impunito privilegio. Forse godendo, chissà, dell’interessata benevolenza di squali ancor più grossi.

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