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Via la volpe, resta il gatto

Bene così. L’accordo era chiaro: Calenda avrebbe dovuto metterci la faccia, Renzi la tasca. La coppia politic fluid non è decollata: la faccia non ha raccolto sufficienti like, le tasche son rimaste vuote e il meno abbiente tra i due s’è dovuto cercare un lavoro. 

Tutto nella norma: da un lato «Azione», ossia il contrario dello star fermi, dall’altro «Italia viva», che se non mangia cessa di vivere. E i due capoccioni, assai diversi tra loro, han preso due diverse strade. 

A giochi fatti il meno inaffidabile tra i due resta Calenda, che una pur vaga percezione di quel che possa e debba essere una politica di centro, se non altro ce l’ha. 

Per Renzi, invece, il Centro non è che il punto esatto in cui in un dato momento egli si trova. Il resto non è che squallida periferia. 

Per Calenda il lato negativo dell’inattesa separazione è la perdita di uno scarso 2% di gradimenti da colmare. Per Renzi è il ritrovarsi chiuso in un ufficio, legato alla scrivania per alzar qualche soldo. 

Tutto sommato, è andata meglio allo scolaretto deamicisiano, che con minimo danno si ritrova oggi con le mani libere per inseguire il suo sogno. 

Se solo sapesse qual è. 

Perché la parola Centro non è un capo da indossare e sfoggiare in giro pavoneggiandocisi dentro. Dovrebbe sostanziarsi in un dettagliato progetto politico che incarni un qualche ideale di convivenza sociale. E mostri la via più breve per realizzarlo. 

Non basta dire né con la duchessa nera, né coi cinquezampe o il neocodazzo piddì: occorrerebbe precisare meglio con chi. E se nessuno in Italia può essere additato a modello di Centro, proporne uno tra i tanti dentro e fuori l’Unione Europea.

Non è poi così difficile definire quella distesa ogni giorno più vasta che separa lo sconcertante fronte forzamelonsalviniano dalla malassortita congrega degli arcobalenisti imbrattamonumenti. 

Tra quella mezza Italia che vive rubando e quell’altra metà che pretenderebbe d’esser mantenuta a spese della collettività, c’è un 8% di coraggiosi che altro non desidera che vivere del proprio lavoro, e allo Stato altro non chiede se non di garantire legalità, servizi e sicurezza. 

È un’Italia che non vuole elemosine, e neppure privilegi, e ancor meno illusioni di grandezza. È un’Italia affamata di certezze. Alberi che chiedono clima temperato e solida terra dover metter radici.

Se il Renzi yo-yo male impersonava quel Centro tanto voglioso di stabilità, il trottolo Calenda si mostra talvolta persino più incerto e volubile.

Occorrerebbero poche parole d’ordine chiare e incontrovertibili: non un generico quanto indefinito europeismo, ma un inequivocabile eurofederalismo; non un barcamenarsi tra autarchici presidenzialismi ed anarchici regionalismi, ma un’Italia parte integrante di un futuro Stato federale europeo; non un continuo affogare in un mare di leggi e leggine che fanno a pugni fra loro, ma vera legalità e certezza del diritto, assicurate da un potere esecutivo ligio al dovere istituzionale, che si astenga dal sovrapporsi al potere legislativo, competenza esclusiva del Parlamento; libere elezioni che restituiscano alla cittadinanza il diritto di voto, conculcato dal rosatellum, concordando in aula una vera legge elettorale da inserire in Costituzione.

Se non avranno forza sufficiente per ottenerlo, avranno quanto meno il coraggio di chiederlo? 

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