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L’indivisibile divisivo

È curioso osservare come non vi sia al momento in Italia argomento più divisivo dell’atomo, ossia dell’indivisibile per antonomasia, come il suo etimo (ἄτομος) intende significare.

Divisivo persino più del MES

Pesa certamente il ricordo di Hiroshima e Nagasaki, per quanto quei due devastanti ordigni siano paragonabili per potenza a due giochi per bimbi, rispetto agli armamenti odierni. Così come pesa la memoria del disastro di Chernobyl, nel quale perirono più di quattromila persone. Ma attribuirne la colpa all’atomo, piuttosto che all’umana incapacità e all’umana incuria, e impedirne ogni sfruttamento a beneficio di tutti, sarebbe come proibire il barbecue per via dell’infinito numero di vittime del fuoco che il mondo ha pianto in milioni di anni e che ancora piangerà in futuro. 

Ancor più incomprensibile è la presunzione di chi pensa che sia sufficiente regredire di duemila anni fino ai mulini a vento e ai primi esperimenti con l’elettricità, per poter sostituire con poca fatica l’energia oggi prodotta dal carbone, dal petrolio, dal gas e – va da sé – dal nucleare. Quasi che a un nostro ordine, obbedienti a tanta sicumera, il vetro spontaneamente rinunciasse al vizio di voler fondere a 1.700°, il ferro a 1.500° e il tungsteno a 3.400°. O che il pianeta possa sopravvivere senza far uso né del vetro, né dei metalli. 

Se si vuole davvero eliminare il consumo dei combustibili fossili, preferibilmente un minuto prima che essi si esauriscano da sé, il nucleare non è un’opzione, ma un dovere: l’unica strada in questo momento percorribile con cui ottenere potenze energetiche illimitate ad emissioni zero. 

Chi teme possibili pericoli nella gestione delle moderne centrali nucleari, dovrebbe tenere a mente che il più grave disastro energetico mai verificatosi in Italia non riguarda l’atomo (pur presente sin dagli anni Sessanta nelle centrali di Latina, Garigliano, Trino, Caorso) ma una fonte di energia rinnovabile: per l’esattezza la diga del Vajont e il connesso impianto idroelettrico, il cui crollo (1963) causò 1.917 vittime e rase al suolo tutti i centri abitati del fondo valle.

Colpa dell’acqua? Colpa della montagna? Colpa dei generatori elettrici? No: colpa dei marchiani errori dei progettisti che, o per incapacità o per interesse, non tennero conto degli alti rischi idrogeologici del sito.

Difficilmente un pur possibile incidente all’interno di una moderna centrale termonucleare (simile a quelle che – pochi lo sanno – l’Italia già costruisce in una certa regione del nord per conto di varie nazioni europee) potrebbe causare un così alto numero di vittime civili. Il bilancio del disastro nella centrale di Fukushima, in Giappone, causato non da un incidente nucleare ma opera del violento maremoto che devastò la costa sulla quale essa si affacciava, fu di una sola vittima. 

A chiudere definitamente ogni progetto di sfruttamento dell’energia dell’atomo in Italia fu il referendum popolare del 2011, punto d’impatto di un’onda contraria nata dopo l’incidente di Three Miles Island, Pensylvania (1979), che causò il posticipo dell’entrata in funzione del reattore di Caorso, dove furono incrementate le misure di sicurezza, e prima ancora, dei tre referendum (1986) immediatamente successivi al disastro di Chernobyl.

Oggi – a tredici anni di distanza da quella consultazione che calò una pietra tombale sul secondo programma nucleare nazionale – in vista di un auspicato quanto inevitabile tramonto delle energie fossili e nell’impossibilità fisica di poterle sostituire con altre fonti a bassa potenza, come l’elettricità, o scarsamente disponibili come la geotermia, si avverte sempre più urgente la necessità di riconsiderare i numerosi vantaggi offerti dall’energia nucleare, considerando la pressoché totale sicurezza offerta dai moderni impianti e l’assenza di scorie nucleari, reimpiegate nella produzione di energia. 

Restano i pregiudizi ideologici, certo: nessuno vorrebbe una centrale nucleare nel cortile di casa. Come peraltro neppure gradirebbe averne una a metano o a carbone. E ancor meno i fumi e i profumi di un termovalorizzatore. 

Ma l’Italia ha dalla sua una straordinaria risorsa geografica che altre nazioni non hanno: settecentoventi piccole isole disabitate a breve distanza dalla costa, gran parte delle quali di nessun interesse naturalistico o paesaggistico, adatte ad ospitare impianti di quel tipo così come un tempo ospitarono carceri, cave, cantieri. 

Cortili oggi di nessuno, domani al servizio di tutti.

È tempo di parlarne.   

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