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Le dita nella marmellata

Quando un bimbo malnutrito riesce a posare infine le mani sul barattolo della marmellata, il primo istinto è quello di nasconderlo ben bene per poi saziarsene a volontà, condividendone giusto qualche cucchiaiata con gli amici più intimi ed i parenti più stretti. 

Il secondo istinto è quello di far sì che il dolce barattolo duri quanto più a lungo possibile, e che ad esso ne seguano altri sempre più dolci e più grandi. Tanta è la fame arretrata. 

È una regola che vale per i bimbi, ma anche per le bimbe. Vale per la marmellata di fragole e lamponi, ma anche per quella di meloni. 

Così, accanto alla traballante campagna elettorale europea che vede marciar sparpagliati i diversamente alleati partiti di governo, si è aperta con gran strepito la stagione di caccia alla marmellata. Anzi: alla fabbrica stessa della marmellata. A quella Presidenza della Repubblica che, investita dal Parlamento sovrano, sceglie e nomina i ministri che compongono il Governo, a partire dal primo: «Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri» [art. 92 c.2 Cost.].

Addomesticato il recalcitrante alleato con la promessa di una piena autonomia regionale, assai gradita da chi controlla sei Regioni italiane su ventuno, e altre nove in coalizione, l’attuale Presidentessa del Vasetto della Marmellata si è fatta promotrice di una proposta governativa di revisione costituzionale tesa a strappar di mano al Capo dello Stato il potere di nomina del Governo, affidandolo al partito vincitore delle contestuali elezioni parlamentari. Con l’ulteriore beneficio di un bonus che garantirebbe al partito più votato il 55% dei seggi delle Camere: quanto basta per regalare al neoeletto l’automatica fiducia del Parlamento. 

Temendo che una simile proposta possa, come già in passato, arenarsi sugli scogli di un referendum confermativo dall’esito alquanto incerto, la marmellatara in carica si è portata avanti e, strizzando il prominente occhio alla parte più asinina dell’elettorato, non cessa di esaltare in audio e in video le miracolose proprietà dell’elezione diretta del futuro Capo dei Capi, sintetizzandole in uno slogan di truce sapore brigatista: «Più potere al popolo!». Illudendo quel «popolo» che sessanta milioni di voci che parlano tutte insieme possano magicamente fondersi nella polifonica armonia di un coro divino, piuttosto che dar vita a un’indegna gazzarra. Come regolarmente ogni sera accade in ogni bar o sala biliardo che si rispetti.  

Il voto diretto non sempre è sinonimo di democrazia. Votano i membri dei consigli d’amministrazione nelle grandi fabbriche, ma non i dipendenti. Votano i proprietari nelle assemblee condominiali, ma non il portiere. Votano persino i cardinali in conclave, ma eleggono un monarca assoluto che non rappresenta i propri elettori, ma solo il suo diretto Superiore. 

La Costituzione italiana non prevede nessuna elezione diretta, se non quella dei membri del Parlamento, i quali – per definizione – sono essi stessi il «popolo». E qualsiasi loro disposizione, delibera o legge è, a tutti gli effetti, espressione della volontà del popolo. 

Da quella elezione primaria discendono tutte le altre. Inclusa, per via indiretta, quella dell’attuale presidente del Consiglio dei ministri. 

Sarebbe una presidentessa migliore, la sgarbatella, se anziché nominata da un Capo dello Stato designato da un Parlamento che si identifica col popolo, fosse stata eletta con suffragio universale, soggetto per sua natura ad un’infinita di imprevedibili variabili?

Poco o nulla cambierebbe. La popolarmente eletta non guadagnerebbe in statura, e neppure parlerebbe con proprietà di linguaggio o con accento milanese o toscano.

Prima ancora che la persona, conta la direzione nella quale essa intende muoversi: quella meta che chiunque si ponga alla guida di qualcosa dichiara di voler infine raggiungere. 

Chi sale su un treno, su un aereo, su un autobus, non chiede informazioni sul nome, l’età o il titolo di studio di chi sta seduto alla guida: chiede piuttosto quale sia la destinazione finale e quali le fermate intermedie. E in base a quelle sceglie il mezzo a lui più congeniale, nella speranza che esso lo conduca in una località quanto più possibile prossima a quella dove egli è diretto. 

Si sentirebbe forse più tranquillo e sicuro, quel viaggiatore, sapendo che chi sta alla guida del mezzo è stato eletto col voto di tutti i passeggeri, anziché esser stato attentamente selezionato dalla compagnia di trasporto, che lo ha assunto e se ne rende pertanto garante e responsabile?

E se sbagliasse tragitto, lo conforterebbe sapere che il sostituto sarà scelto dagli amici di quell’autista incapace e costretto a seguire il medesimo errato percorso? E che in caso di ulteriori sbagli, il mezzo sarebbe obbligato a fermarsi ed i passeggeri invitati a scendere e trovarsene un altro?

Ci son tante cose che non funzionano, nell’Italia del terzo millennio, e chi avrebbe il dovere di aggiustarle e perfezionarle (operazione elettoralmente in perdita), preferisce invece demolire quelle poche che ancora egregiamente funzionano e poi malamente ricostruirle a propria immagine e somiglianza.  

Non diversamente da quel chiacchierato e chiacchierone Ministro degli Affari Altrui, uso a dir la sua su tutto purché l'argomento non sia di diretta competenza. Convinto com’è che tappar le buche a strade e autostrade, o curare la manutenzione di scuole ed ospedali, renda (elettoralmente) assai meno di un grandioso ponte sospeso tra due regioni, soprattutto se affidato a chi neppure sa da che parte si cominci a costruirlo, così da far sì che quel sogno resti vivo (e resti sogno) per molti altri decenni a venire. 

Di tante cose la Costituzione avrebbe necessità, a cominciare da una legge elettorale che restituisca la libertà di voto agli elettori, oggi impossibilitati ad esprimere non soltanto il nome e il cognome del loro rappresentante in Parlamento, ma neppure la preferenza per un partito o per un altro. O ancora di una norma che accentuasse la separazione tra i poteri, impedendo ai parlamentari di far parte della Magistratura o del Governo, o ai ministri di occupare un seggio alle Camere o di accettare incarichi giudiziari.

Tra le molte cose di cui la Costituzione non ha invece alcun bisogno, sicuramente vi è la sgangherata proposta di mettere nelle mani dei partiti (o meglio: di un solo partito, incicciato dalla truffa del 55%) un potere che la Costituzione mai s’è sognata di riservare ad essi, intenta com’è a tollerarli (art. 49 Cost.) ma guardandosi bene dal riconoscer loro un qualsiasi ruolo istituzionale, col rischio di fare dell’Italia una repubblica popolare e non più parlamentare. 

Cose ben note, a chi la marmellata ha avuto la fortuna di conoscerla sin da piccolo, imparando non solo ad apprezzarla ma anche a moderarne il consumo. Ma del tutto sconosciute a chi invece l’infanzia l’ha passata sbavando dal desiderio di assaggiarla. E che adesso, animato da voglie di rivalsa e schiavo di una fame antica e feroce, in quel barattolo non vede l’ora di  tuffarcisi dentro. 

Fermamente intenzionato a non uscirne mai più.  

 

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