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La nonna di tutte le riforme

Esistono diverse specie di fame. 

C’è la fame di cibo, che è la più facile da soddisfare: basta mangiar qualcosa, e si è subito sazi. 

C’è poi la fame di denaro, più difficile da placare. Eppure anch’essa ha un limite, oltre il quale è il medesimo arricchito a devolvere parte dei propri averi in beneficenza: un po’ per spegnere l’invidia dei morti di fame come lui, un po’ per limar la punta a quel coltello che ogni potenziale erede stringe tra le mani. 

C’è infine la fame di potere: questa sì, insaziabile. Non solo perché senza limiti su questa Terra, ma perché insinua nell’affamato l’illusione di potersi guadagnare una qualche vita eterna oltre la morte, di continuare ad esistere sotto forma di lapidi, statue, pagine di Storia, celebrazioni biografiche, intitolazioni di piazze e strade, narrazioni cinematografiche, citazioni illustri nei discorsi dei governanti che verranno. 

Ignorano, i poveretti, che i grandi personaggi consegnati alla Storia hanno il più delle volte disdegnato il potere. Dai grandi filosofi ai massimi artisti, dagli uomini di scienza ai religiosi. Vissuti magari all’ombra del potere terreno, ma senza mai servirlo o rincorrerlo.

Breve è la gloria del mondo: se è vero che milioni di piccioni, orfani delle lucenti teste di Lenin, Stalin, Hitler, Mussolini, oggi abbattute al suolo, sfogano i loro bisogni sulle marmoree membra di santi, musicisti, pensatori, benefattori, eroi. Quelli sì, eterni. Sta ai posteri, l’ardua sentenza: la pagella del proprio valore. Non a chi consuma l’esistenza inseguendo una gloria ancor più effimera della pur breve vita umana. 

Ma è una lezione che non tutti hanno appreso. 

Così, ancora oggi, c’è chi spera di eternarsi fagocitando pacifiche nazioni, chi invece costruendo ponti sugli stretti, chi legando il proprio nome ad un qualche disegno o proposta di legge. Quando non addirittura alla Legge di tutte le Leggi: la Carta Costituzionale, lo Statuto che indica il percorso sul quale una nazione ha liberamente scelto di incamminarsi, e dal quale sarebbe auspicabile non deviare. E fa sorridere il fatto che mentre le vere strade, in Italia, cadono letteralmente a pezzi, gli sforzi di ogni parvenu della politica si concentrano invece su quell'itinerario virtuale, mostratosi sinora ben più solido di quelli reali. 

Certo: piccoli interventi di manutenzione possono rivelarsi talvolta necessari: ben sedici, tra piccoli e grandi aggiustamenti, son stati portati a termine dal 1963 ad oggi. E non sempre, come nel caso del Titolo V, che ha riscritto le competenze degli Enti Locali, si può parlare di lavori eseguiti a regola d’arte. 

Piccoli aggiustamenti, è vero, in confronto al poco segreto sogno di ogni autentico morto di fame (di potere), che è poi quello di stracciare la Costituzione per poi riscriverla, da cima a fondo, a propria immagine e somiglianza. E non attraverso quel percorso unitario e condiviso adottato dai Padri costituenti e inutilmente tentato dalle fallite commissioni bicamerali Buozzi (1983), De Mita - Jotti (1992) o D’Alema (1997), ma con veri e propri colpi di mano, come il berlusconico tentativo del 2006 o il maldestro azzardo dello sceicco fiorentino nel 2016. Entrambi, per nostra fortuna, naufragati in sede referendaria.

Oggi, a sette anni dall’ultimo affondamento, un’altro presidente del Consiglio si batte non per il bene del Paese, ma per moltiplicare i poteri del medesimo presidente del Consiglio. Mostrando in tal modo di dedicare assai più tempo allo specchio che non allo studio. Son dopotutto la debolezza delle radici e la smisurata considerazione di se stessi i tratti caratteriali che accomunano lo scomparso arrampicatore di Arcore, l’ex quizzarolo televisivo e l’urlatrice della Garbatella. Evidentemente mossi dalla medesima insaziabile fame. 

Annunciando il disegno legge di riforma costituzionale votato avantieri dal Consiglio dei ministri, la presidente Giorgia Meloni non ha esitato a definirlo «la madre di tutte le riforme». Evidentemente ansiosa, lei che dovrà sopportarne la lunga gravidanza, di diventare la nonna di tutte le riforme.  

— Non serve a me, ma all’Italia — si è schermita la madre della madre di tutte le riforme. 

Alla richiesta di meglio precisare a cosa mai potesse servire un simile sforzo, la risposta è stata: — Serve a portare l’Italia nella Terza Repubblica. 

Nell’inspiegabile e inspiegata convinzione che un’eventuale Terza Repubblica debba necessariamente esser migliore della Seconda, che a conti fatti si è poi rivelata peggiore della Prima.

Invitata ad esporre i vantaggi del progetto in discussione, con linguaggio circense la nonna ha precisato: — La riforma mette fine ai ribaltoni, ai giochi di palazzo, ai governi arcobaleno e dei tecnici, assicura un orizzonte di legislatura e l’Italia non potrà che beneficiarne quanto a credibilità.

Dove per «ribaltone» si intende la sostituzione, felicemente avvenuta in passato, di un governo rivelatosi inetto con un altro più efficiente, senza per questo dover sciogliere il Parlamento. Per «giochi di palazzo» si intendono accordi extraparlamentari che in quanto tali ad altri non possono essere addebitati se non allo sgambettare dei partiti politici, tollerati dalla Costituzione ma privi di alcun potere istituzionale. Per «governi arcobaleno» si intende una coalizione tra partiti talvolta distanti: ammucchiata non così dissimile da quella che oggi governa l’Italia. Per «orizzonte di legislatura», infine, si intende non la longevità del Parlamento, già stabilita per legge, ma quella del Governo, che delle Camere non è – a rigor di Costituzione – il capo, ma il (non sempre umile) servitore.

Non si tratta dunque di rappezzare qualche tratto dell’autostrada costituzionale, là dove qualche pilone s’è indebolito o l’asfalto ha ceduto. Si tratta di abbandonare il vecchio percorso per disegnarne un altro nuovo di zecca. E non ad opera di tutto il Parlamento, ma di una parte di esso: oggi maggioritaria per mancanza di un credibile nemico, ma domani chissà. 

Va da sé che ogni proposta, in quanto tale, è di per sé legittima: persino quella di restaurare la monarchia, o di dar vita a una repubblica federale, o di consegnare il potere ai partiti costituendo una repubblica popolare. Tutto è possibile, a patto che le regole del gioco siano da tutti condivise.

Chi progressista lo è per davvero dovrebbe prima di ogni altra cosa domandarsi: l’Italia immaginata dalla nonna di tutte le riforme è un Paese migliore o peggiore dell’attuale? Abbandonare la vecchia strada per la nuova è un giusto passo in avanti, o rappresenta invece ben più che un passo indietro?

Occorre esaminare il progetto nel dettaglio. 

A una prima lettura conforta constatare che resta inalterata la destinazione finale, ossia quel Paese ideale raffigurato nel Titolo I dell’attuale Costituzione. Cambia però la via per raggiungerla. 

Resta la suddivisione dei poteri tra Parlamento, Governo e Magistratura, ma il ministro che sta a capo del secondo non viene più scelto e nominato – come gli altri ministri del Governo – dal capo dello Stato, ma è designato dal voto popolare. 

«Il presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni», è la principale tra le modifiche proposte.

Che ciò possa costituire un progresso, è alquanto dubbio. Non soltanto perché il risultato è soggetto all’umore popolare del momento, alle manipolazioni di chi controlla gli organi di informazione, all’estrema volatilità delle opinioni, all’inesistente capacità di orientamento dei partiti, ma perché sottrae un potere essenziale al capo dello Stato. Per giunta in maniera alquanto disarmonica: perché il Presidente ella Repubblica manterrebbe il potere di nominare tutti i ministri, ma non il loro coordinatore, che acquisirebbe dunque un indubbio vantaggio sugli altri: diventerebbe giustappunto un premier, un primo ministro. Come da Berlusconi in poi amano autoproclamarsi in Italia i presidenti del Consiglio.

Oltre ciò, qualora l’eletto dovesse dar segni di pazzia, o improvvidamente schiattasse, o finisse in manette, il capo dello Stato avrebbe sì il potere di sostituirlo, ma solo e soltanto con un parlamentare proveniente dalla medesima maggioranza. 

Come specifica il testo: «può conferire l’incarico di formare il governo al presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto ha ottenuto la fiducia».

Ma in tal modo il nuovo presidente del Consiglio «supplente» non rispecchierebbe più la presunta volontà del popolo, ma quella del Parlamento. E un presidente che sia diretta espressione del potere legislativo sarebbe a dir poco in contrasto con quella separazione dei poteri che è costituzionalmente sancita.

Oltre ciò, la norma si presterebbe a facili abusi: nulla vieta infatti che un vincitore eletto, ma non gradito alla maggioranza, sia da quella invitato a dimettersi per lasciare immediatamente spazio ad un altro nome ad essa più gradito. 

I rischi, come si può intuire, son molti. Da un suffragio popolare, oggi potrebbe venir fuori un Vannacci, ieri magari un Messina Denaro, domani persino un essere umano, ma immediatamente destituibile per far posto a un Salvini o a chi per lui. 

Ciliegina aggiuntiva, se anche il nuovo designato dovesse dar segni di insanità mentale, non sarà possibile nominarne un terzo, ma si renderà necessario sciogliere il Parlamento ed andare a nuove elezioni.  

In pratica si sottrae al capo dello Stato un altro dei suoi poteri: quello di porre anticipatamente termine alla legislatura. Potere che passa di fatto nelle mani del presidente del Consiglio «supplente» e, conseguentemente, della sua maggioranza parlamentare.

Chicca nascosta, ma non di minor conto, l’abolizione dei senatori a vita: un tempo preziosa risorsa di sapienza, memoria e saggezza, oggi poco più che un inutile ingombro: ultimi giganti in un’aula di nani, imbarazzati da ogni possibile confronto. 

I fili d’erba possono più facilmente credersi alberi, se si ha l’accortezza di radere al suolo quei pochi fusti che ancora svettano sul prato. 

La madre di tutte le riforme non parla di quell’unica modifica che davvero potrebbe rappresentare un progresso, e cioè una legge elettorale che restituisca agli Italiani la libertà di voto e che sia finalmente inserita in Costituzione, anziché lasciata nelle mani di chi detiene il potere al momento del voto. Però impone che qualsiasi futura disposizione elettorale debba garantire un’ampia maggioranza al vincitore: «la legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al presidente del Consiglio dei ministri».

Come dire che un partito che raccolga nelle urne il 15% dei voti, laddove nessun’altra formazione dovesse superare quella quota, avrebbe costituzionalmente diritto ad una rappresentanza parlamentare pari al 55% dei seggi, tanto alla Camera che al Senato. 

Come dire: potere assoluto. Potere di scriversi da sé qualsiasi legge e di imporre al Paese un Governo amico. 

Tornando alla domanda iniziale, e cioè se una tale manomissione possa rappresentare o no per il Paese un reale progresso, umilmente ci sentiremmo di affermare che, lungi dal migliorare alcunché, essa peggiora, se non addirittura mina e distrugge, quel delicato equilibrio tra i poteri che lo Statuto delimita e difende. E che un reale volontà di miglioramento suggerirebbe piuttosto di muoversi in direzione opposta e contraria, accrescendo la separazione tra i poteri, piuttosto che cancellarla: prevedendo, come già  accade in altre nazioni, l’assoluta incompatibilità tra nomina parlamentare e nomina ministeriale. Vietando a chiunque di far parte al medesimo tempo di Governo e Parlamento, o di Parlamento e Magistratura, o di Magistratura e Governo, che sono e debbono restare poterei «separati» dello Stato. 

Lungi dal rappresentare un progresso, la madre di tutte le riforme è uno sputo in un occhio a tutti gli Italiani. Se gli Italiani lo accetteranno passivamente, così come hanno entusiasticamente accettato la castrazione del Parlamento per mano grillina, vorrà dire che se lo saranno ampiamente meritato. 

E la disdicevole madre di tutte le riforme potrà infine generare, indisturbata, ancor più disdicevoli figli.   

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