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Due buone riforme

Se nessuna repubblica parlamentare al mondo prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri, una ragione dovrà pur esserci. E consiste nel fatto che un governo elettivo sarà sempre e comunque, per sua stessa natura, al servizio di chi lo ha eletto, piuttosto che del bene comune della nazione. 

Quando nella Storia recente si è reso urgente e indispensabile procedere alla nomina di governi «tecnici» (per meglio dire: indipendenti) ciò è accaduto proprio perché l’interesse di parte (dei partiti) aveva momentaneamente preso il sopravvento sull’interesse collettivo, ponendo a serio rischio il futuro dell’Italia. 

Nessun governo «tecnico» sarebbe mai potuto nascere in presenza di un governo politico credibile, capace di ottenere la fiducia del Parlamento. Fiducia che la dilettantesca proposta di riforma istituzionale dell’attuale maggioranza si propone di forzare grazie ad un premio che regalerebbe il 55% dei seggi a quella lista che dovesse affermarsi nelle elezioni politiche, indipendentemente dalla percentuale dei voti ottenuti. E tutto questo, secondo la corta vista dei promotori, per «dare maggiore stabilità ai governi». 

Come se chiudere tutte le porte in ingresso e in uscita, incluse quelle di emergenza, garantisse a chi sta dentro il Palazzo (Chigi) maggior sicurezza in caso di incendio!

La fame (arretrata) di potere che muove i parvenu della politica, impazienti di impadronirsi del Paese anziché limitarsi a governarlo (cosa di cui si son finora dimostrati incapaci), muovendosi sul solco già tracciato da Massimo D’Alema finirebbe col trasferire molti dei poteri istituzionali non nelle mani dei cittadini, ma dei partiti. Quei medesimi partiti che servendosi di una legge elettorale immonda (il rosatellum) hanno di fatto cancellato qualsiasi libertà di scelta da parte dei cittadini: impossibilitati non soltanto a scegliere per nome e cognome i propri rappresentanti in Parlamento, ma persino ad esprimere la propria simpatia per un partito. Costretti come sono, questi ultimi, a presentarsi non col proprio simbolo ma ammucchiati in estemporanee quanto litigiose e poco durature coalizioni.

Se gli aspiranti riformatori fossero in buona fede (ma non lo sono) e davvero ambissero ad intervenire sullo Statuto per renderlo più efficiente e adeguato ai tempi (ma non ambiscono), più giusto sarebbe procedere in direzione opposta e contraria. Con due provvedimenti quanto mai necessari e urgenti: 1) restituire la libertà di voto agli elettori; 2) rafforzare la separazione fra i tre poteri. 

Una vera legge elettorale che consenta a chi vota di designare con nome e cognome il proprio rappresentante in Parlamento, quella sì darebbe più potere ai cittadini. Mentre al contrario l’elezione diretta del premier quel potere glielo toglierebbe, facendo ricadere sugli elettori ogni colpa e inefficienza nell’azione di governo, anziché, come oggi accade, sul Capo dello Stato che l’ha nominato e che detiene il potere di sostituirlo o revocarlo. 

Se poi questa nuova legge elettorale, concordata in Parlamento, fosse inscritta una volta per tutte in Costituzione, si risparmierebbe al Paese il consueto balletto di quelle leggi elettorali ad partitum che ogni maggioranza ama scriversi da sé, a proprio vantaggio, pochi giorni prima di ogni elezione. 

Se è pertanto necessario che il presidente del Consiglio sia diretta espressione del Capo dello Stato, e non il paladino di interessi di parte, un’altra riforma quanto mai indifferibile sarebbe quella di accentuare la separazione tra i poteri, rendendo incompatibile la contemporanea presenza di una medesima persona in più d’uno di essi. Un parlamentare non dovrebbe poter al medesimo tempo ricoprire la carica di ministro, e viceversa. Non meno di quanto un magistrato in attività dovrebbe poter sedere in Parlamento o sui banchi del Governo. Se si vuole che i tre poteri separati dello Stato, «separati» lo siano per davvero. 

La proposta di riforma dell’attuale maggioranza si muove dunque in questa direzione?

Assolutamente no. 

Non si parla di restituire la libertà di voto agli Italiani. Anzi: la si comprime ulteriormente, delegando allo spropositato premio del 55%, piuttosto che al voto, la scelta dei Parlamentari.

Neppure si parla di separazione dei poteri ma, al contrario, di fonderli insieme sotto l’ombrello di quel partito che riuscirà ad impadronirsi in un sol colpo di Parlamento e Governo. 

Potrà mai un simile stravolgimento dei principi ispiratori della Carta trovare approvazione in Parlamento o nel possibile referendum confermativo che ne conseguirà? 

Saranno gli Italiani (forse per l’ultima volta) a decidere. Se vorranno vivere nel presente e guardare con fiducia al futuro, o se vorranno regredire verso quel loro non luminosissimo passato. 

Per alcuni, evidentemente, non del tutto passato.    

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