Lì ci è capitato di leggere un illuminato editoriale destinato ad aprir la mente di chi oggi ha l’immeritata fortuna di vivere in Europa, pur senz’aver speso un briciolo d’energia nel costruirla.
Pensano, costoro, che tanta bellezza, tanta sicurezza e tanto benessere altro non siano che un premio speciale che la sorte ha voluto destinare ad essi. Ai quali altro dovere non spetta se non goderne nella maggior misura possibile, spazzando sotto il tappeto, per poi scordarsene, le lacrime, il sudore ed il sangue che han bagnato i secoli occorsi per erigerla.
Un edificio, per giunta, che completato ancora non è.
Ancora non esiste uno Stato Europeo. Uno Stato confederale dotato di una moneta unica, di frontiere comuni, di una politica estera e di una difesa condivise, di un corpus legislativo quanto meno armonizzato tra quei ventisette Paesi che aspirano a diventare Europa, ma che ancora non lo sono.
L’Europa che adorna le labbra di tanti politicanti, colpevole di ogni nazional misfatto e (a loro dire) carente d’ogni benefica iniziativa, altro non è che una somma di trattati che regolano un certo numero di rapporti, per lo più di natura economica, tra quegli Stati che li hanno sottoscritti.
È un’Europa che ha potuto prosperare in pace per un intero dopoguerra solo perché protetta dall’ombrello militare NATO, e per tal motivo da esso in gran parte dipendente.
Sostanzialmente disarmata, con l’uscita della Gran Bretagna (2020) l’Unione ha perso non solo i due terzi del proprio potenziale nucleare, ma anche una vasta rete di basi militari nel mondo. Le forze armate di alcuni Stati membri, come l’Italia e la Germania, soffrono inoltre delle limitazioni imposte dai trattati di pace del 1947, come il divieto di possedere determinate strutture di difesa, un numero sufficiente di militari, deterrenza nucleare, armamenti a lunga gittata. Se ciò non bastasse, neppure esiste un’efficace forma di coordinamento tra i vari eserciti: né in termini di standardizzazione delle armi in dotazione, né per quanto riguarda la linea di comando, che continua a far capo alle molteplici decisioni sovrane dei singoli Stati.
Se tale situazione ha sinora costituito per gli Europei un indubbio vantaggio, in quanto ha consentito alle nazioni di dirottare verso l’economia le ingenti somme sottratte alla (inefficace quanto impossibile) difesa, rischia adesso di diventare, alla vigilia di un’annunciata lunga stagione di conflitti, la palla al piede che minaccia di affondare la parte più disgregata, delicata e fragile dello scacchiere militare d’Occidente.
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Voltando la testa altrove, gli Europei si limitano a sostenere di preferire la pace alla guerra. Quasi competesse ad essi deciderlo, piuttosto che all’umore dei loro nemici.
Chiunque, nel mondo, predilige la pace alla guerra, così come preferisce la salute alla malattia, la ricchezza alla miseria, la quiete alla tempesta, la terra ferma ai terremoti, le acque calme alla furia del mare, l’abbondanza alla carestia.
Preferisce insomma il Paradiso in terra, ormai perduto, al mondo così come esso realmente è.
«No such thing as a free lunch», nessuno pensi di poter mangiare a sbafo, era il ritornello che accoglieva ogni immigrato che da Ellis Island poneva piede nel Nuovo Mondo. Come dire: questa terra è la tua terra, ma spetta a te lavorarla e trasformarla in pace e ricchezza.
E difenderla.
Gli Stati Europei, invece, nel secondo dopoguerra la pace e la ricchezza le hanno ricevute per lo più in regalo. La pace imposta a forza dai vincitori e protetta dall’Alleanza Atlantica, la ricchezza accesa tramite il Piano per la Ripresa Europea (piano Marshall) ed in seguito alimentata dal molto lavoro resosi necessario per la ricostruzione.
L’Europa che ne è nata (Unione, ma non ancora Stato) è uno scrigno di ricchezze paesaggistiche, storiche e culturali che gli Europei sanno di dover proteggere e difendere. Purché lo faccia qualcun altro. Magari quello Stato-mamma che l’ha accompagnata fino all’età della ragione e che adesso vorrebbe vederla diventare adulta. Capace di badare a se stessa.
Eppure, al solo pensiero di dover investire qualcosa in sicurezza e difesa, foss’anche per limitarsi a un più attento controllo dei propri confini, non c’è suddito o cittadino europeo che non sobbalzi tre volte sulla sedia. Quasi che la pace fosse un diritto acquisito, da aggiungere ai tanti altri proclamati (ma non sempre conquistati) e non invece un bene da acquisire, amministrare e difendere. Con le armi, se necessario.
Perché se una pace esiste, essa è e sarà sempre comunque figlia di una guerra.
Persino noi angeli fummo un dì costretti alla guerra:
«E vi fu battaglia in Cielo: Michele e i suoi angeli combatterono contro il dragone. Il dragone e i suoi angeli combatterono, ma non vinsero e non si trovò più posto per loro in Cielo. E il gran dragone, il serpente antico, che è chiamato Diavolo e Satana, il seduttore di tutto il mondo, fu gettato giù; fu gettato sulla terra e con lui furono gettati i suoi angeli»
[Apocalisse 12,7-9]
Fu così, dalla dannazione altrui, che ebbe origine la nostra pace. Non certo da un desiderato quanto impossibile dialogo tra il diavolo e l’acqua santa, tra il Bene e il Male. Mediazione da affidare comunque a mediatori «altri e terzi», agli (altrui) «sforzi diplomatici». Senza disturbare i gaudenti.
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Oggi tutti quei valori che nel Dicembre del 1948 le Nazioni Unite vollero definire «diritti umani», incarnazione di quel desiderio di Liberté, Égalité, Fraternité posto a fondamento del pensiero occidentale contemporaneo, sedimentatisi in due secoli di sangue versato, sono minacciati dal fanatismo religioso e dalla volontà di potenza di alcuni Stati precipitati verso un inesorabile declino, come la Confederazione Russa, ed altri un tempo emergenti ma ormai fin troppo emersi, come la Cina, che gode oggi dei benefici di un’età industriale vissuta in ritardo ed in via d’esportazione verso un’Africa sub-sahariana dove quel modo di produzione è stato a lungo ignoto, o come il Brasile, o come l’India.
Per quanto tempo i minuscoli regni e repubbliche europee potranno ancor sperare di godere di una pace presa in affitto, disdegnando di costruirsene una propria e a proprie spese?
L’ombrellone della NATO già mostra più d’uno strappo, a giudicare dalle incertezze che animano la Turchia islamica, seconda forza militare dell’Alleanza, o dallo sguardo USA sempre più orientato verso la crescente instabilità del Pacifico, o dal malessere di alcuni Stati dell’Est europeo, ancora troppo legati all’ingombrante vicino ex-sovietico.
Occorre costruire al più presto un vero sistema di difesa europeo. Per liberarsi dai vincoli dei trattati del 1947 e per ottenere maggior ascolto all’interno della NATO.
Ma tutto ciò non è neppure immaginabile senza la preventiva nascita di un vero Stato Confederale Europeo, che quell’esercito possa dirigerlo con una linea di comando univoca e condivisa, che non può discendere se non da una politica estera parimenti univoca e condivisa.
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È facile osservare come non tutti gli Stati UE siano preparati ad una simile svolta: chi per motivi ideologici, chi politici (le monarchie, restie a cedere anche in minima parte il loro potere), chi economici. Ma è anche vero che il rifiuto di alcuni Stati UE di farne parte non ha per ciò impedito la nascita dell’Eurozona o dell’Area Schengen.
Allo stesso modo la costruzione di uno Stato Confederale Europeo non rende indispensabile la partecipazione di tutti gli Stati UE. Nulla impedisce all’Unione Europea di continuare ad esistere e ad operare come sinora ha fatto, ma nulla vieta che ad essa si possa affiancare una Confederazione Europea che accolga al proprio interno tutte quelle nazioni che intendono parteciparvi, purché disposte a cedere parti della propria sovranità in materia di economia, fiscalità, politica estera e difesa.
Se fallirà nell’opera, nulla potrà impedire alla nuova Confederazione di disciogliersi. Se avrà successo, altri Stati UE si adopereranno per aderirvi al più presto.
Una sola cosa è certa: nel nuovo mondo che va lentamente delineandosi non sarà più sufficiente marciare affiancati, occorrerà marciare insieme.
Non soltanto uniti, all’interno di un’Unione, ma insieme: in un sola grande Confederazione Europea.
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