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Heroes and Villains

Tutto quel che infine l’organizzazione di Hamas è riuscita a fare, cogliendo di sorpresa quelle persone che il sette di Ottobre si apprestavano a trascorrere in serenità sul proprio territorio una giornata di festa, è stato sparare, uccidere, massacrare, mutilare, violentare, sequestrare più di millecinquecento fra donne, vecchi, invalidi e bambini. 

Ma non gli uomini. I quali, indossata la «U» maiuscola, si accingono in queste ore a rispondere da Uomini. Osservando alla lettera l’insegnamento della loro Bibbia: «Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente. [Levitico 24, 19-20]».

Gli Uomini hanno indossato la divisa ed imbracciato le armi. I riservisti son rientrati da Paesi pacifici e lontani, dall’Italia agli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna al Canada. Hanno insistito per arruolarsi generali in pensione e baldi vecchietti con 95 primavere sulle spalle. Sanno che sarà una guerra lunga e difficile, ma hanno scelto di combatterla.

Si chiamano eroi. 

Combattono a viso aperto. Non in caccia di donne, vecchi e bambini da trucidare, ma dei troppi criminali che aderiscono all’organizzazione politica paramilitare di Hamas, che dal 2007 esercita il potere assoluto nella regione di Gaza. 

Il nome «Hamas» è l’acronimo di «Movimento Islamico di Resistenza», e quella mendace parola, «resistenza», è bastata ad accender gli animi degli antioccidentali di mezzo mondo, che in virtù di quella scambiano per eroico il sanguinario comportamento di un’organizzazione che ben 74 Stati nel mondo riconoscono come «terrorista». 

Ma può chiamarsi «resistenza» la caccia all’ebreo vigliaccamente posta in essere in quel sabato di Ottobre? Un’atrocità che neppure Hitler o Mussolini ebbero mai il coraggio di compiere pubblicamente, ma solo di nascosto, tra le mura e i recinti spinati dei campi di concentramento?   

Anche in Italia, durante il Risorgimento, esistevano società segrete (come la Carboneria) e persino forze paramilitari, quali in effetti erano i Mille di Garibaldi. Ma sempre quei patrioti alzarono la penna o la spada al grido di «Viva l’Italia!», inneggiando a una nazione che ancora non c’era, ma che infine seppero costruire. 

I vigliacchi di Hamas, invece, mentre massacravano donne, vecchi, invalidi e bambini, non hanno urlato «Viva la Palestina!», la nazione che ancora non c’è. Hanno gridato «Morte agli ebrei!». Meglio ancora se deboli, innocenti e disarmati. A misura di codardo. Esprimendo in tal modo non il desiderio di costruire, ma di distruggere. Non un nuovo Stato a cui dar vita, ma uno Stato vicino a cui invece toglierla. 

Lì sta la differenza tra l’eroe e il malvagio. Non certo nell’abilità nell’uso delle armi o nel possesso di una migliore strategia di combattimento, ma nel sapersi scegliere il nemico. 

L’oppressore austriaco, immensa potenza imperiale estesa dai Balcani alla Sassonia, dal Lombardo-Veneto all’Ungheria, è stato per gli eroi del Risorgimento italiano un bel nemico, degno d’esser combattuto. E persino l’attentatore di Sarajevo scelse come vittima un arciduca erede al trono asburgico, mica un’anziana paralitica in carrozzella. Ma i vigliacchi di Hamas han preferito accanirsi invece contro un raduno musicale di ragazzi provenienti da tutto il mondo, animati peraltro da sentimenti pacifisti tanto sinceri da scegliere quella location, a pochi passi dal confine con Gaza, quasi a significare un gesto di fratellanza verso quegli sfortunati coetanei allo stesso tempo così lontani e così vicini.

Può esser definito «resistenza» il gesto di pugnalare alle spalle senza alcun motivo uno sconosciuto che canta e danza senza sospetto nel mezzo del deserto? E poi stanare casa per casa altre donne, altri vecchi, altri invalidi, altri bambini, al solo scopo di ucciderli e macellarli? Può essere definito «eroismo»?

L’eroe, nella mitologia ebraica, non è l’umano Ettore che sfida il semidio Achille, o l’Ulisse che affronta ogni genere di avversità, naturale e sovrannaturale, senza mai scostarsi dal proprio obiettivo. L’eroe, per qualsiasi Israeliano, è Davide che atterra Golia: è la mente che ha la meglio sui muscoli, la disciplinata intelligenza che trionfa sulla bestia, tanto feroce quanto stupida e ignorante. 

Lì ha mostrato la propria forza Israele: popolo nomade desideroso di ritornare a stanziarsi, coloni da vecchio film western intenti a far sorgere dai deserti la propria nazione, minacciati non dai pellerossa ma dalle più grandi potenze nell’area: dall’Egitto alla Giordania, dalla Siria al Libano, fino all’Iraq. Grandi potenze che al nuovo Stato ebraico, insediatosi il 14 Maggio del 1948, dichiararono insieme guerra già dal giorno successivo. Il 15 Maggio 1848. 

Quella guerra, quei cinque grandi eserciti disastrosamente la persero. E con essa la faccia. 

Il Davide Israele non soltanto stese a terra Golia, guadagnando sul campo il diritto di esistere, ma, avanzando, acquisì nuovi territori. Quegli stessi che i Palestinesi, allora sconfitti e costretti ad arretrare, oggi reclamano. 

Il minuscolo Stato ebraico, seppure ancora in fasce, si comportò da eroe, e divenne agli occhi di molti un eroe. 

Di molti, ma non certo di tutti. Gli eroi non godono di grande popolarità, al di fuori della ristretta cerchia di chi dalla loro azione ha tratto un pur minimo vantaggio. Il grande campione sportivo sarà sempre un eroe per i suoi tifosi, ma un nemico da umiliare per i suoi avversari, che saranno comunque più numerosi. 

Oltre ciò, la maggior parte delle persone è debole, per età o per natura. E, pur ammirando i propri eroi, fatica ad identificarsi con essi. Non potendo in altro modo giustificare la propria inadeguatezza, spinta dall'insoddisfazione e dall’invidia si schiera talvolta dalla parte dei codardi, più simile ad essa. Illudendosi di trovar nella fuga la soluzione di ogni problema. Ma così non è.  

L’eroe, al contrario, non fugge. Combatte.  


Se n’è parlato altrove: tre sono le leggi di ogni guerra: 

• se in tempi di pace vince chi ha ragione, in tempi di guerra ha ragione chi vince; 

• in guerra non esistono buoni e cattivi, giusti ed ingiusti, belli e brutti, ma soltanto amici e nemici. Gli amici si aiutano, i nemici si combattono;

• non vi è guerra che non sia destinata a concludersi. La fine di ogni guerra si chiama «pace», ma non va scordato che ogni pace è pur sempre figlia di una guerra, e di quella non potrà non conservarne i tratti. 

L’azione criminale di Hamas – che neppure può essere considerata un atto di guerra, ma solo un’atroce quanto cruenta provocazione – testimonia l’assoluta indisponibilità dei dittatori di Gaza a perseguire la pace attraverso il civile confronto e il dialogo. E lascia pertanto alla vittima, lo Stato di Israele violato e offeso, non l’opzione, ma l’inderogabile dovere di reagire a una simile sfida facendo uso di ogni possibile arma.  

Combattere il nemico impone di smantellare la rete di complicità e di protezioni intessuta da Hamas con promesse e minacce nel territorio che esso controlla: la città di Gaza e l’area sottostante. Una rete fatta non soltanto di relazioni tra individui, ma anche di strutture fisiche: di scuole dove si insegna la fabbricazione di razzi e bombe; di quel groviglio di gallerie attraverso cui trasuda ogni genere di contrabbando; di alti palazzi dai tetti trasformati in rampe di lancio; di edifici fortificati; di ampie aree minate. 

Occupare la città di Gaza è al momento il piano posto in essere da Israele, che ha imposto un ultimatum ai residenti nell’area nord della striscia, la più popolata, invitandoli a trovar riparo altrove.  

Il mondo teme l’allargamento del conflitto, e si interroga sull’entità e proporzionalità della reazione, scordando tuttavia che Hamas gode di oltre la metà del consenso elettorale: oltre il doppio rispetto alla storica Al-Fatah. Porre fine al dominio di Hamas potrebbe pertanto render necessaria l’eliminazione fisica di svariate centinaia di migliaia di fiancheggiatori. Su un territorio urbano ignoto agli attaccanti, che il nemico tenterà di trasformare in una trappola mortale. 

C'è il timore di una reazione spropositata che conduca alla sollevazione di altre regioni ad alta presenza palestinese, al rafforzamento dei sentimenti anti israeliani nel mondo arabo, a un possibile isolamento internazionale, alla ripresa del terrorismo islamico in Occidente (di cui già si intravvedono pericolose avvisaglie), a perdite eccessive tra le fila dell'esercito attaccante.

Ciò nonostante, non potrà che esser questa la strada. Non quella dei vigliacchi, che colpiscono alle spalle e senza preavviso, ma quella degli eroi, usi a fissar negli occhi l’avversario. E a vincerlo.

Confidando in quel fortunato tiro di fionda che, oggi come allora, non potrà non centrare la fronte del barbaro e animalesco Golia. 

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