Un partito che voglia definirsi tale orienta la propria azione intorno a un progetto coerente, articolato e dettagliato di società futura, impegnandosi per raccogliere intorno ad esso la più vasta platea di consensi.
All’opposto un movimento politico guarda solo all'immediato, dedito ad estemporanee quanto sterili manifestazioni di protesta, volte a combattere il nemico (vero o immaginario) del momento al solo fine di sconfiggerlo, piuttosto che di tentar di attrarlo dalla propria parte.
Un partito propone al mondo un sogno e indica la strada per realizzarlo. Un movimento si limita a distruggere i sogni altrui, senza riuscire a proporne di suoi.
La forza di un grande partito sono le grandi maggioranze, quelle che in tempi gramsciani si usava chiamare «masse popolari».
La forza di un movimento sono le più esigue minoranze, inesauribile fonte di più o meno velleitarie rivendicazioni intorno alle quale costruire le più vibrate proteste.
La società della comunicazione sembra favorire i movimenti rispetto ai partiti.
Costruire ferrovie o asfaltare strade, migliorare sanità e istruzione, combattere il crimine e rafforzare la difesa – in una parola il quotidiano buongoverno di un Paese – appartiene alla normalità, e non riempie le pagine dei giornali. Solleticare le minoranze, siano esse quell’1% di coppie omogenitoriali o quel 5% di «poveri», o schierarsi dalla parte di quattro vandali ambientalisti, di un anarchico inappetente, di cannibali caricati a canne, o distribuire soldi e bonus a pioggia a chiunque, stramiliardari inclusi, ti apre invece le porte di giornali e tivù. E pazienza se si tratterà della popolarità di un giorno e non delle pagine di un libro di Storia.
Tutto ciò rientrerebbe nella normalità se solo si avesse l’onestà di chiamarlo col suo vero nome: movimento di protesta alla ricerca di immediati consensi, Sardina’s style.
Più arduo è accettare che un simile movimento pretenda di ammantarsi a sbafo delle etichette di «democratico» e «di sinistra».
Solleticare gli istinti della minoranze è il contrario della vera democrazia, fondata all'opposto sul primato della maggioranza.
E non basta sventolare le generiche bandiere del clima, del lavoro, dei diritti, guardandosi bene da sostanziarne i contenuti, per potersi definire «di sinistra».
Le sensibilità ambientali possono facilmente diventare la più reazionaria delle politiche, se vengono poi declinate nel NO ai termovalorizzatori, NO a nuove strade e ferrovie, NO ai rigassificatori.
Allo stesso modo il lavoro, vent’anni dopo la fine dell’età industriale e la scomparsa della classe operaia, non è più un’attività accessibile a chiunque senza una specifica formazione, così come lo era un tempo per un avvitabulloni o un incartacioccolatini. Il lavoro non è più un «posto» che si cerca, ma un mestiere che si sceglie. Assunzioni inutili ed elemosine a pioggia non appartengono alla sinistra, ma alle pelose attività benefiche dell’ultradestra cattolica.
Anche la difesa di ogni vero o presunto diritto, storica bandiera della borghesia liberalradicale, quando privilegia una minoranza a spese della maggioranza diventa un fatto di destra: opprimere una maggioranza di non fumatori per tutelare i diritti di una minoranza di fumatori non è «di sinistra», così come non lo è difendere i presunti «diritti» di tassisti e operatori balneari, bloccando sul nascere nuove forme di mobilità urbana o migliori servizi sulle spiagge.
Una sinistra moderna non strizza l’occhio ai bombaroli, agli occupanti abusivi dei centri sociali, ai vandalismi del terrorismo ambientalista, alla vasta comunità cocaeroinomane, a tutto ciò che comporti una qualche forma di distruzione che tanto ricorda quel mito della Rivoluzione così caro alla sinistra nostalgica ma in realtà invenzione borghese di fine Settecento, figlio dell’insegnamento biblico che non possa realizzarsi il nuovo senza il totale annientamento del vecchio, senza un giudizio finale, senza un Armageddon.
Una sinistra del terzo millennio, votata all’evoluzione più che alla rivoluzione, orientata a costruire più che a distruggere, non può che avere come sola e unica parola d’ordine il Progresso.
Una sinistra moderna o è progressista o non è.
Progredire significa andare avanti. Non indietro. E meno che mai gironzolare oziosamente intorno a questioni minime che riguardano una minuscola parte della popolazione, miglior materia per associazioni culturali e di categoria che non per chi vorrebbe proporsi come un grande partito di massa.
E per andare avanti occorre indicare con chiarezza una strada e una meta, per quanto irraggiungibile essa possa apparire al momento.
L’Italia è nata nel 1861, ma il sogno di un’Italia unita stava già in Petrarca.
Quali sogni stanno oggi all’interno del piddì?
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