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Autarchia, pessima via

Che l’autarchia faccia parte dei rifiuti della Storia, è cosa nota a chiunque. Tranne forse a quei pochi che di storia conoscono a malapena quella di Cappuccetto Rosso, e magari parteggiano per il lupo. 

Donald Trump dev’essere certamente tra questi, se davvero ha pensato di poter far grande l’America isolandola. E armato di tale speranza ha disseminato per il mondo un gigantesco canestro di dazi che va dallo 0% (per il prediletto Putin) fino al 59% della dimenticata Cambogia. Senza tralasciare un inspiegabile 10% comminato alle sperdute isole antartiche Heard e McDonald: estensione 36 km, popolazione zero, pinguini molti. 

Così l’enciclopedia (Treccani) definisce l’autarchia: «Condizione di un Paese che mira all’autosufficienza economica, nell’obiettivo di produrre sul territorio nazionale i beni che consuma o utilizza, limitando o annullando gli scambi con l’estero».

Raramente, nella Storia, l’autarchia è stata adottata come libera scelta. L’Unione Sovietica vi fu costretta a causa dell’isolamento internazionale, e i piani quinquennali di sviluppo non produssero che schiavitù e miseria. L’Italia fascista dovette ricorrervi quando le sanzioni seguite all’invasione dell’Etiopia (1934) determinarono il blocco di ogni rapporto commerciale. Il risultato fu il caffè d’orzo in luogo di quello vero e gli scarponi di cartone («Cuoital») ai piedi dei soldati mandati a morire sulle nevi russe.

La seconda guerra mondiale impose in seguito a tutti i belligeranti un regime di forzata autarchia. Autarchia che soltanto in USA non generò morte e miseria. 

Questo perché, prima dell’evoluzione del mezzo aereo, gli USA erano la sola nazione al mondo militarmente inattaccabile da terra, dal cielo o dal mare, ed anche nel pieno di una guerra ebbero così modo di gestire al meglio un’economia da sempre autosufficiente.

Pensare che gli USA possano oggi ridar vita quella condizione di totale autonomia produttiva ed economica, ed in tal modo Make America Great Again, è un’idea a dir poco tanto demenziale quanto irrealizzabile.

Fu facile isolarsi, quando un intero continente era di fatto una sola grande isola. Impossibile oggi, che isola non lo è più. 

Non soltanto perché qualsiasi aereo, missile o satellite è in grado di colpirlo, ma perché la produzione industriale non è più – come un tempo – autosufficiente. Esistono beni di consumo entrati a far parte della vita quotidiana degli Americani – non solo vino e uova – che quel continente non è da solo in grado di produrre. E, quand’anche lo fosse, non certo ai costi del tessile indiano o della meccanica cinese. O con la medesima qualità italiana, svizzera, tedesca o francese.   

Pensare che i dazi possano riportare in casa produzioni da tempo delocalizzate altrove, significa ignorare che l’Età Industriale, negli USA, è finita trentacinque anni fa. 

Se non lo fosse, quelle braccia oggi incatenate e cacciate oltreconfine sotto lo sguardo compiacente delle telecamere trumpiane, starebbero invece sotto i capannoni, intente a produrre ricchezza. Ma così non è. Perché le fabbriche postindustriali sono mosse dalle macchine e dai cervelli, non più dalle braccia. E molte di quelle macchine provengono dall’Europa o dalla Cina, così come da oltreoceano la gran parte dei cervelli – da Enrico Fermi fino ad Elon Musk – a loro tempo attratti dagli ideali di libertà e di pace di quella (ex) grande nazione. 

Chiudersi in casa poteva (doveva!) andar bene in quei tempi di guerra. Un po’ come lo è stato, per la gente comune, chiudersi tra quattro mura durante la pandemia Covid. Una scelta, ieri come allora, forzata: una non-scelta che nessuno ha mai pensato di intitolare, stupidamente, «Liberation Day»! 

Non son stati quei tre anni di Covid, i più belli della nostra vita. 

Neppure lo saranno, per chi vive oggi negli USA, questi tre mesi di sguaiato potere di Trump e della sua impresentabile corte. 

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