La prima? No: l’ennesima!
Piccola? No: colossale!
Una sola? No: tante!
L’eco della vicenda Almasri non s’è ancora attenuata che già mille voci la rimbalzano, amplificandola. E la cosa curiosa è che ad attizzare il fuoco non è l’inconsistente opposizione parlamentare, ma la presidenza del Consiglio dei ministri. Quella che più dovrebbe darsi da fare per spegnerlo, piuttosto che gettar benzina nel tentativo di spostare il bersaglio dal pericoloso criminale libico in direzione di una non meglio precisata «magistratura»: termine che nel linguaggio degli opposti poteri raccoglie un po’ tutto: giudici, procuratori, cassazione, tribunali, avvocati e cancellieri, mescolando in un solo calderone le diverse competenze della Magistratura, del Parlamento, del ministro di Giustizia, degli ordini professionali, delle associazioni sindacali.
L’ultima sparata – quindici minuti di teleinvettive urlate contro «alcuni giudici, fortunatamente pochi, che vogliono decidere la politica industriale e quella ambientale, la politica dell’immigrazione, vogliono decidere se e come riformare la giustizia, per cosa possiamo spendere e per cosa no» (intendendo come di consueto per «giudici» le procure, ed attribuendo ad esse poteri che costituzionalmente non hanno) – già conteneva una panzana di grosso calibro: «Se io sbaglio, gli Italiani mi mandano a casa. Se sbagliano loro, nessuno può fare o dire niente».
Nulla di più falso. Nella sua veste di presidente del Consiglio, il solo che può mandarla a casa è il Capo dello Stato, che l’ha nominata. In quella di Senatrice nessuno può costringerla a dimettersi, se non una manifesta incompatibilità con altre parallele attività. E se sbaglia un magistrato ci penserà il Consiglio Superiore della Magistratura a giudicarlo.
Segue a raffica un’altra panzana di ben più minacciose dimensioni, a tripla testata: «Indagarmi è un danno alla nazione, mi manda ai matti. Se i giudici vogliono governare si candidino».
Esternazione che, alla prova del panzanometro, rivela le seguenti incongruità: a) nessuno si è mai sognato di indagarla, né sarebbe titolato a farlo, compito che spetterà eventualmente al Tribunale dei ministri, previa autorizzazione del Parlamento; b) difficile che un «giudice» (traduzione: magistrato) ambisca a governare. Non solo per via della minore retribuzione ma, soprattutto, per i maggiori fastidi e il minor tempo libero, per non parlar della cattiva compagnia; c) se una persona di valore ambisse comunque al titolo di ministro – incarico che non richiede né particolari studi né impegnativi concorsi – non dovrebbe in alcun caso «candidarsi» ad alcunché, dal momento che quella del ministro non è una carica elettiva, ma un incarico lavorativo direttamente conferito dal Capo dallo Stato.
In caccia d’altri nemici e non sapendo dover rilanciare la palla, la teleinvettitrice prende di mira il procuratore Lo Voi, per averle inviato comunicazione (obbligatoria) della denuncia presentata dall’avv. Li Gotti e subito inoltrata all’organo competente (Tribunale dei ministri). La nuova invettiva è quella che il procuratore abbia inteso portare avanti una misera quanto tardiva personale vendetta per essersi visto negare in passato l’uso di un volo di Stato, richiesto per motivi di sicurezza.
Il panzanometro segnala a questo proposito l’incapacità della ministra di distinguere un uomo da un quacquaracquà: un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni da un turista low-cost.
Incapacità che ritorna nell’appello finale: «Penso che anche a sinistra ci sia un sacco di gente che vorrebbe un’Italia normale, in cui una persona per bene non deve avere paura dello Stato, del fisco, della giustizia, della burocrazia».
Nel quale mostra di non aver contezza che le persone «per bene» già da adesso non hanno alcuna paura né dello Stato, né del fisco, né della giustizia, né della burocrazia.
Male non fare, paura non avere, recita il vecchio detto.
E per quanto alla ministra paia impossibile, circondata com’è da multiprovenienti individui, le persone «per bene» già esistono. E non votano per lei. E neppure per quella scompaginata compagine che pretende d’esser chiamata «sinistra».
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