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Sette giorni prima

L’ormai imminente primo anniversario del 7 Ottobre – atteso da troppi non come un luttuoso evento i cui terribili effetti sono ancora in corso, ma come lieta occasione di far festa tra sfilate carnevalesche, canti, danze, saccheggi e cagnara antisemita – minaccia di accendere ulteriori pericolosi disordini. 
E non in Medio Oriente, oggi diviso tra chi è chiamato a combattere e chi invece a difendersi, e neppure nelle straricche città arabe di Al Ryad, Abu Dhabi, Doha o Dubai, ma nei fragili centri storici delle città d’Occidente. 
Consapevoli dei rischi, molti Stati han vietato per quella ricorrenza ogni genere di manifestazione di piazza, per evidenti ragioni di ordine pubblico. Un divieto che alcuni han tuttavia annunciato di voler apertamente violare. Sotto gli occhi e i portafogli compiacenti dello spionaggio russo, mai così attivo in Italia, così come di chiunque altro è nemico di ogni progresso.

* * * * *

Ciò premesso, è giunto il tempo di por fine all’indecente arbitrio di definire «genocidio» il tentativo israeliano di portare in salvo i (pochi) sopravvissuti allo sterminio del 7 Ottobre, tuttora imprigionati nelle fogne di Hamas, o quantomeno di restituirne i corpi torturati e smembrati alle famiglie. 

Un «genocidio», a rigor di dizionario (Treccani) è la parola italiana che traduce il termine inglese «genocide», coniato e pronunciato per la prima volta dal giurista polacco Raphael Lemkin nel corso del processo di Norimberga, col seguente significato: «Grave crimine, di cui possono rendersi colpevoli singoli individui oppure organismi statali, consistente nella metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui, la dissociazione e dispersione dei gruppi familiari, l’imposizione della sterilizzazione e della prevenzione delle nascite, lo scardinamento di tutte le istituzioni sociali, politiche, religiose, culturali, la distruzione di monumenti storici e di documenti d’archivio».

In breve: la cancellazione fisica e storica (passata, presente e futura) dell’esistenza e della memoria stessa di un’intera etnia o religione.

Si può applicare tale definizione all’attuale risposta militare israeliana a Gaza?

Certamente no. 

Perché la popolazione di Gaza NON è un’etnia, ma è solo parte dell’etnia palestinese. E se il fine di Israele fosse lo sterminio dell’intera etnia palestinese, questi non avrebbe certo necessità di spender denari per rispondere ai missili che gli vengon quotidianamente lanciati da Gaza, dallo Yemen, dal Libano. Sarebbe per Israele infinitamente più facile rastrellare, richiudere, affamare, torturare e sterminare quei Palestinesi che pacificamente vivono e lavorano nei campi, nelle case, nei cantieri, nelle botteghe, nelle fabbriche di Tel Aviv, di Gerusalemme, di Cisgiordania. Così come Italiani e Tedeschi fecero a loro tempo nei loro confronti. Ma Israele si guarda bene dal farlo, e i Palestinesi continuano a vivere e a lavorare in quelle città senza alcun timore che Israele lo faccia. 

A far più frequentemente uso della parola «genocidio» sono in larga maggioranza i giovani nordamericani, lontani dall’Europa e dunque del tutto ignari della Storia europea. L’argomento che essi portano a sostegno della loro inaccettabile tesi, è il fatto che nelle operazioni militari a Gaza ha perso la vita un gran numero di civili, circa 40.000, secondo i dati forniti dallo stesso Hamas. Dimenticando tuttavia che a Gaza non esistono veri militari, ma solo militanti: dunque «civili». Così come di «civili», non in uniforme ma in abiti da passeggio, era composta la folla che ha partecipato ai massacri e ai rapimenti del 7 Ottobre. E «civili» erano le centinaia di migliaia di abitanti scesi in piazza a Gaza per festeggiare con canti e danze l’evento. 

Col 44% dei voti raccolti a Gaza, Hamas ha mostrato di poter contare sul sostegno attivo di circa un milione di seguaci. Pronti a tutto. E a quel milione vanno dunque rapportati i 40.000 denunciati da Hamas: meno del 4% di quanti si son resi responsabili del massacro dei coloni. 

Che gli abitanti di Gaza non costituiscano un’etnia a sé, ma solo una parte dell’etnia palestinese – peraltro malvista dagli stessi Palestinesi – lo dimostrano i pochi o nulli segni di solidarietà, le poche o nulle offerte d’ospitalità o d’aiuto, le poche braccia dichiaratesi disposte a combattere per la Striscia da parte dei Palestinesi d’Israele.

Circola anzi tra i Palestinesi un certo senso di astio nei confronti dei fratelli di Gaza. Perché se un’ultima piccola speranza di pacifica convivenza di due popoli in due Stati poteva forse ancora sussistere, i massacri di Hamas vi han posto ora e per sempre una pesantissima pietra sopra. E han fatto tutto loro. Loro hanno scoperchiato il vaso di Pandora: quello che tanto gli Israeliani quanto i Palestinesi mai come negli ultimi anni avevan pensato bene di tener prudentemente chiuso. 

L’attuale situazione in Palestina rispecchia in parte (se n’è discusso altrove) un’altra vicenda che proprio quei giovani americani meglio di chiunque altro dovrebbero conoscere: le Guerre Indiane nate dall’avanzata dei coloni nei territori dell’Ovest, i tentativi di pacifica convivenza e il loro definitivo fallimento. 

L’istituzione dei Territori Indiani (1763-1906), autoamministrati dai capi tribù, non ebbe vita facile. Dapprima vennero a mancare le risorse vitali: le popolazioni nomadi dell'Ovest che vivevano della caccia al bisonte, impedita dalle recinzioni e dall’avanzata della ferrovia, si ritrovarono in breve tempo prive di mezzi di sussistenza. Il nuovo Stato Federale dovette allora occuparsi del mantenimento delle tribù con sostanziosi aiuti umanitari, forse sufficienti a placare la fame ma non certo a risarcire il perduto onore. 

Molte delle agenzie governative incaricate della fornitura di quegli aiuti, non contente di limitarsi a rubare sulle derrate, presero ben presto a trafficare rifornendo le tribù prima di alcol e infine di armi da fuoco. 

Una volta in possesso di polvere e fucili, le tribù indiane si ribellarono, massacrando i coloni e sterminando interi battaglioni di soldati regolari. 

Fu la fine di ogni sogno di pacifica convivenza. Molti villaggi indiani furono rasi al suolo, le popolazioni asservite o disperse e i Territori Indiani risotti a minuscole riserve, oggi fonte di ricchezza per quei pochi sopravvissuti che le amministrano: scrivendosi da sé le leggi e godendo di totale esenzione fiscale, o gestendo case a gioco tra USA e Canada, o vendendo carburante al doppio del prezzo nelle le paludi della Florida, o gestendo i flussi turistici in aree di pregio come la Monument Valley. 

Neppure nel caso dei nativi americani, tuttavia, è lecito parlare di «genocidio». Non soltanto perché quel termine è nato un secolo più tardi, ma perché la memoria e la tradizione di quelle popolazioni, seppure sconfitte, non son mai state cancellate, e circolano ancora su tanti libri, nel cinema, nella televisione, nonché nelle mercanzie che riempiono i banchi dei negozi etnici dei Territori. 

Oltre ciò, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, il personaggio cinematografico dell’Indiano crudele torturatore, vile assassino cacciatore di scalpi, è stato pian piano sostituito dalla figura dell’«Indiano buono», presto trasformatasi in quella dell’Indiano vittima innocente di una colonizzazione violenta e priva di scrupoli.  

Che sia stata proprio questa svolta culturalpopolare, sancita dal successo di «Soldato Blu» (il film del 1970 che spinse tanti giovani a tracciare un parallelo tra il massacro dei Cheyenne a Sand Creek e lo sterminio di civili a Mỹ Lai, Vietnam, nel 1968) ad orientare l’attuale atteggiamento dei ragazzi statunitensi, schieratisi al fianco dei miliardari criminali di Hamas nel più totale disprezzo per le inermi vittime del 7 Ottobre, bruciate vive, violentate, sequestrate, torturate, massacrate?

Che si tratti di una lettura fallace ed errata, lasciamo che sia la Geografia a dimostrarlo. 

Negli anni Quaranta del secolo scorso l’intera Europa, caduta sotto il tallone nazista, perseguitava casa per casa un popolo senza patria: non certo per impadronirsi di un territorio che i figli di Israele ancora non avevano, ma giusto perché appartenenti ad un’etnia e a una religione differenti. 

Oggi che un territorio israeliano finalmente esiste – grazie alle Nazioni Unite che ne hanno deliberato la nascita, alla Gran Bretagna che l’ha ceduto e ad una lunga guerra combattuta per difenderlo, vincendola – esso non è che un invisibile francobollo nella mappa del mondo, più piccolo della Sardegna e circondato da milioni di nemici giurati: Arabi, Turchi, Persiani... 

La Geografia, solo a lasciarla parlare, grida piuttosto a gran voce che se ancora esiste un luogo che possa ricordare la realtà di una piccola riserva indiana, circondata da feroci nemici che ogni giorno minacciano di depredarla, affamarla e distruggerla, quello è proprio lo Stato di Israele. Che chiede soltanto di poter continuare ad esistere. 

In pace, se possibile. Ma pronto a difendersi, quando possibile non è. 


 

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