Non certo come «atto di guerra», vista l’assenza di un esercito regolare e di combattenti in divisa, per non parlar dell’inosservanza delle più basilari regole d’onore.
Neppure sarebbe corretto definirlo «gesto terroristico», titolo meglio riconducibile ad azioni suicide e talvolta improvvisate, piuttosto che all’azione premeditata e per anni dettagliatamente preparata da parte della formazione politica che ancora governa, con ampio gradimento, la Striscia di Gaza.
Potremmo forse chiamarla «incursione», come ogni atto di forza invasivo nei confronti di una proprietà altrui, ma non sarebbe ancora la corretta denominazione, se si considera che nel caso in esame le motivazioni sono di carattere politico, prima ancora che di vendetta, di saccheggio o di rapina.
Molti l’hanno definita «provocazione», e certamente in parte lo è stata, se è vero che qualcuno quella sfida l’ha accettata e ha di conseguenza reagito, scatenando l’inferno. Ma la bestialità degli atti compiuti, l’accanimento, le stragi, la cattura di ostaggi da seviziare, torturare ed uccidere, senza riguardo per sesso, salute od età, spingono a valutare come a dir poco riduttiva quella definizione.
Frugando nel dizionario – ma, prima ancora, nella Storia – l’appellativo che forse meglio si attaglia all’indegna e cruenta azione potrebbe esser quello di «scorreria». Ossia: «Rapida e improvvisa incursione di reparti armati in territorio nemico, o comunque non proprio, né di alleati, per saccheggiarlo e devastarlo [Treccani]». Termine assai più preciso di «scorribanda»: che, a differenza della scorreria, non avviene ad opera di un «reparto armato», ma «di una schiera o di una banda di armati». Sottile differenza che presume nel primo caso un’organizzazione consistente e radicata, militare o paramilitare; nel secondo un’azione estemporanea a scopo di guadagno o di rivalsa, priva di una forte motivazione politica.
Scorribande, nella Storia, potevano esser quelle delle bande mercenarie rimaste senza paga nell’Italia del Rinascimento; o gli attacchi islamici – protrattisi dall’VIII al XIX secolo – contro i maldifesi centri costieri mediterranei, per saccheggiarli, incendiarli e rastrellare donne e bambini da rivendere come schiavi.
Tra le scorrerie, Machiavelli cita quelle dei Romani, usi a «straccare i nimici» con brevi ma violente incursioni oltre i confini: azioni irregolari di un esercito regolare. Quelle che oggi chiameremmo: attacchi a sorpresa.
Per trovare in tempi recenti qualcosa di simile al gesto di Hamas, occorrerebbe forse volger lo sguardo sulle numerose scorrerie messe a segno dalle tribù indiane d’America nei confronti di quei pionieri e coloni in marcia verso l’oro della California (1848) e ai molti altri che vi si accodarono in fuga da un Sud stremato dalla Guerra Civile (1861-65) e di fatto ridotto alla fame, attrezzato com’era per comandare (agli schiavi) e non per lavorare.
A differenza delle più pacifiche tribù native del Nordest, dedite alla piccola caccia e circondate da terre generosamente vegetate dove praticare la raccolta, gli Indiani del West non disponevano di altre risorse alimentari se non la caccia al bisonte, uso a muoversi in grandi mandrie sulle sterminate praterie desertiche che costeggiavano il nord del Messico.
L’arrivo dei primi coloni bianchi fu immediatamente percepito dai pellerossa come una temibile minaccia: recinzioni, allevamenti, agricoltura, insediamenti stabili ed infine la ferrovia, ebbero l'effetto di frantumare il territorio, impedendo le migrazioni dei bisonti e dando il via ad un lento processo di estinzione della specie.
Tribù da secoli in lotta fra di loro, come sempre accade quando i confini nazionali sono sommariamente definiti e la sola possibilità di sviluppo è quella di estendere il controllo ai territori confinanti, a spese dei vicini, gli Indiani si trovarono per la prima volta nella necessità di confrontarsi con un crescente numero di persone forse disorganizzate, ma comunque assai meglio armate di loro: pistole e fucili, mai visti prima, contro lance, asce e frecce.
Impossibilitati a sostenere un confronto in campo aperto, le scorrerie ai danni dei pionieri divennero ben presto per gli Indiani lo strumento preferito (forse il solo possibile) per contrastarne la presenza.
Bande di guerrieri ululanti, male armati ma numericamente superiori, invadevano le terre dei coloni massacrando qualsiasi essere vivente si parasse loro davanti, incendiando case e cose: smembravano i corpi, strappavano gli scalpi, rapivano ostaggi e li trascinavano nei loro luridi accampamenti, dove venivano oltraggiati, torturati, mutilati ed infine bruciati vivi in pubblico, tra canti di festa.
La fine della Guerra Civile e la nascita di un nuovo esercito federale, possente e riconosciuto al Nord come al Sud, rese possibile nel West la costruzione di una rete di fortezze e presìdi armati a difesa dei coloni.
Un tale dispiegamento di giubbe blu ebbe come immediata risposta quel che nessuno avrebbe mai ritenuto fin allora possibile: la stipula di un patto d’amicizia fra tribù un tempo feroci avversarie: Apache, Comanche, Sioux, Cheyenne... Per giunta ora in possesso di moderne armi da fuoco vendute loro da mercanti senza scrupoli.
Inevitabilmente, il confronto si spostò in campo aperto, tra forze entrambe ben organizzate, armate e addestrate alla guerra.
Molte furono le azioni di sterminio da una parte e dall’altra, da Little Big Horn a Wounded Knee. Interi reggimenti di giubbe blu morirono in battaglia o nei fortini presi d’assalto; intere tribù indiane furono sterminate, altre confinate in riserve sempre più minute, prive di mezzi di sostentamento e inevitabilmente destinate all’estinzione.
Una cosa, tuttavia, apparve subito chiara: il sogno di una pacifica convivenza nel medesimo territorio fra popoli così distanti, inseguito e ricercato sin dai tempi del Trattato di Laramie (1851), non avrebbe più avuto possibilità alcuna di realizzarsi. Le parti avrebbero combattuto all’ultimo sangue, fino al definitivo annientamento di una delle due.
Come poi di fatto avvenne.
Se la Storia ha davvero qualcosa da insegnarci, esiste una non remota eventualità che il 7 Ottobre possa in qualche modo aver tracciato una linea di non ritorno all’idea di una possibile rappacificazione tra Israeliani e Palestinesi.
La Striscia di Gaza, prova generale in miniatura di uno Stato palestinese, lungi dal diventare una Dubai sul Mediterraneo, in diciotto anni di completa e indisturbata indipendenza in altro non si è trasformata se non in un covo di briganti, armati fino ai denti ma senza cibo da metter sotto i medesimi, se non quelle poche elemosine elargite non dagli «amici», che neppure si degnano d’aprir loro la porta di casa, ma dai «nemici»: dalle Nazioni Unite, dalla Croce Rossa, dalle nazioni occidentali. Persino dallo stesso Israele.
Un esperimento clamorosamente fallito. Da cui prendono le dovute distanze persino i fratelli palestinesi di Cisgiordania.
Difficile, in questo scenario, parlare di «proporzionalità», in un territorio dove almeno un milione di persone ha giurato fedeltà ad Hamas ed un altro milione l’ha votato nelle urne.
Ancor più difficile prefigurare l’esito della tragica vicenda. O meglio: dell’imperdonabile scorreria.
Non esiste al momento che una sola certezza: molto è quel che è andato distrutto; ancor più è quel che ancora resta da costruire.
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