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Ad armi pari

Davvero esiste qualcuno disposto a credere che il Paese più vasto al mondo, ventotto volte più grande dell’Ucraina, con una superficie che copre undici fusi orari (quasi un’intera faccia del pianeta), possa sentirsi minacciato da un piccolo Stato confinante privo di risorse naturali e sostanzialmente disarmato dal memorandum di Budapest del 1994?

Solo chi è in malafede (come Putin) o chi è ignorante (come i tanti suoi italici sostenitori) può pensarlo. 

I libri di Storia dovranno presto sottrarre al mondo fin troppa cellulosa per spiegare ai posteri le ragioni di una guerra che oggi appare insensata, oltre che sproporzionata. Motivazioni forse incomprensibili ai più, ma non a chi in questo esatto momento sta impegnando in quel conflitto ogni possibile risorsa: dagli Ucraini che si difendono, ai criminali russi che li attaccano. 

Cosa mai può desiderare la Russia, più di quel che ha? Un Paese primitivo che, pur vivendo di raccolta (incapace com’è di produrre alcunché), raccoglie tuttavia non pigne dagli alberi ma oro, diamanti, gas e petrolio in abbondanza dal ricco sottosuolo? 

La risposta non è difficile: come ogni altro essere al mondo, Putin desidera quel che ancora non ha: il mare. Quel mare senza il cui controllo la Russia non potrà mai dar vita alla grande flotta che potrebbe consentirle di dominare il mondo. Un mare che, al momento, è una proprietà quasi esclusiva della Gran Bretagna. Non soltanto per via delle sue navi, quanto per il gran numero di basi che essa possiede in ogni angolo del mondo. 

Costretta invece a nascondersi sui fondali coi suoi sommergibili, la misera flotta russa deve accontentarsi del Mare di Azov, di quella Crimea sottratta a suo tempo all’Ucraina e della piccola enclave baltica di Kaliningrad. 

Misera cosa, se si considera che tanto il Mar d’Azov quanto la Crimea son comunque guardati a vista dai Dardanelli turchi (NATO) e il porto di Kalingrad, dai bassi fondali, gran parte dell’anno è circondato dai ghiacci. 

È dunque la Gran Bretagna il vero nemico non dichiarato di Putin. E lo dimostra il fatto che le crescenti minacce verbali russe siano genericamente rivolte contro l’Occidente, la NATO, gli USA, l’Unione Europea. Mai in modo esplicito contro la Gran Bretagna. Quasi che essa fosse – come probabilmente è – un obiettivo segreto. 

* * *

Che in Gran Bretagna siano di ciò pienamente coscienti, è un dato di fatto. E lo dimostra non solo la generosità degli aiuti in denaro e armamenti con cui il Regno Unito supporta gli Ucraini, ma anche la pronta disponibilità mostrata nel consentire ad essi di utilizzare i propri missili a lungo raggio per colpire il territorio russo. Questione sulla quale altri Paesi hanno opposto più d’una reticenza, quando non (tra questi l’Italia) un fermo diniego. 

È certamente vero che la differenza tra il carattere offensivo o difensivo di un’arma derivi in gran parte dal luogo in cui essa viene utilizzata. Una pistola, da considerarsi difensiva in casa propria, diventa offensiva se usata in casa altrui. Ma quando in luogo della pistola c’è un missile che, lanciato da casa propria, è in grado di colpire la casa altrui, magari a ottomila chilometri di distanza, il discorso cambia. E non di poco. 

L’invenzione dell’arma da fuoco ha a suo tempo sovvertito l’essenza stessa della guerra, come già lamentò l’Ariosto nell’Orlando (XI, 26). Poter colpire da lontano l’avversario, per giunta di nascosto, ha fatto dello scontro armato un mestiere da vigliacchi, piuttosto che da coraggiosi e celebrati eroi. E in quanto a vigliaccheria, Putin non ha niente da imparare da nessuno.

Se dunque la Russia può colpire l’Ucraina non con l’ardore dei suoi cosacchi (prudenzialmente sostituiti da criminali all’uopo scarcerati, dediti a ubriacarsi sin dal mattino presto) ma con missili lanciati da un tasto sul comodino accanto al letto, perché l’Ucraina non dovrebbe esser legittimata a colpire quel comodino?

La Gran Bretagna, silenziosa ma non stupida, l’ha capito. Biden, meno silenzioso e un appena più stupido, sta lì lì per comprenderlo. L’Italia, che mai ha terminato una guerra accanto a coloro con cui l’ha cominciata, mercanteggia e traccheggia. 

Eppure, l’azione oltre confine degli Ucraini a Kursk si è rivelata ben più producente di due anni combattuti in casa propria. Non soltanto per l’allarme che il successo dell’azione ha suscitato al Cremlino, quanto perché ha mostrato al mondo un diverso modo di combattere. Son stati fatti dei prigionieri, per dirne una, mentre i Russi in Ucraina han sempre ricevuto l’ordine di non farne alcuno, e giustiziarli sul posto. E tanto è bastato, tra gli abitanti della città di Kursk, per rendere l’invasore ucraino più popolare di quei connazionali che invece quotidianamente li opprimono.

L’Ucraina va messa in condizione di difendersi, se si vuole che continui a difenderci. Perché se è vero quanto detto, e cioè che il fine ultimo (penultimo?) dei Russi è il controllo dei mari, il cedimento dell’avamposto ucraino costituirebbe un mortale pericolo innanzitutto per la costruzione dell’unità europea, che è ben lungi dall’esser completata. 

In guerra non esiste che un solo vero nemico, ed è la paura. Paura di combattere, paura di perdere, paura di vincere. Averne, o – peggio ancora – mostrare di averne, è la strada più veloce verso la sconfitta. Esiziale e definitiva. 

Non si tratta di auspicare una tanto temuta escalation. Anche perché, come accade in ogni bilancia («scale», nell’albionico idioma), all’escalation dell’uno non può che corrispondere la de escalation dell’altro. Ed è interesse del mondo che a depotenziarsi siano in questo caso la Russia e il dittatore sanguinario che intende porla alla testa di tutte le forze antioccidentali, piuttosto che l’Occidente medesimo. 

Aiutare l’Ucraina a proteggersi, in questo momento, significa voler difendere il mondo. E se l’offesa arriva da lontano, anche la difesa deve poter colpire altrettanto lontano. Nessun confronto, foss’anche una partita di ping-pong, può esser definito equo, se non è combattuto ad armi pari.



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