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Quando i giornali scrivevano notizie...

C’è stato un tempo, nelle redazioni dei giornali, in cui i giovani neoassunti venivano educati alla religione delle cinque «W»: Who?; What?; When?; Where?; Why?: chi, che cosa, quando, dove, perché. 

Fosse mancata anche una sola risposta ad una soltanto di quelle cinque domande, la notizia avrebbe cessato d’esser tale. Non sarebbe stata altro che una vox populi, un’indiscrezione, un frammento di notizia, un pettegolezzo in corso di verifica. 

Divieti di legge ed autocensure, così come la presenza di redattori sempre più pudibondi e politicamente corretti, han fatto sì che molte prime pagine si aprano oggi con titoli di tal genere: «Ventinovenne alla guida uccide un trentottenne dopo un diverbio nato da una mancata precedenza nel centro cittadino». 

Guai a scriverne nome e cognome, inimmaginabile indicarne la nazionalità, sconsigliato qualsiasi riferimento al tipo o alla marca dei veicoli, inelegante segnalare l’ora o l’esatto luogo, pleonastico approfondire le cause e le conseguenze dell’accaduto.

C’è chi ancora lo chiama «articolo». Altri preferiscono definirlo «un apostrofo color banconota tra due inserzioni pubblicitarie». 

A ciò s’è ridotta l’informazione nel Terzo Millennio: un breve e generico messaggio che lascia spazio a mille fantasie e a diecimila supposizioni, che troveranno poi spazio nell’assai più frequentata fogna dei cosiddetti social, dove è solito sputar sentenze il grosso di quei personaggi un tempo etichettati come «antisociali». 

Perché dunque stupirsi nel vedere l’intero circo della stampa italiana, dalla carta al web, dalle radio alle televisioni, far mulinello intorno a una notizia che ancora notizia non è, ma che in troppi sperano o temono che un giorno possa esserlo. E cioè l’esistenza di un complotto, a firma di molteplici poteri dello Stato, ordito ai danni della sorella della presidente del Consiglio dei Ministri, al fine di destabilizzare la (mai così instabile) maggioranza di governo!

A nulla son servite le smentite ufficiali, la totale assenza di carte o provvedimenti in merito, le molte proteste. Nulla ha potuto impedire l’elevazione a notizia di quello che altro non è che l’azzardo di un flebile quanto immotivato sospetto. 

Complice la stagione estiva, da sempre divoratrice di gossip, di straordinarie nascite di agnelli con due teste in Kazakistan, di navi cisterna attaccate dai calamari giganti a Bermuda, molti giornali han ritenuto opportuno approfittare del chiassoso bisbiglio per inchiostrare pagine altrimenti destinate a restar bianche. 

E così l’inconsistente scandalo, che un tempo sarebbe finito sul fondo del cestino come «del tutto destituito da ogni possibile fondamento», continua prepotentemente a far ragliare di sé. Tra governanti in lacrime che lanciano impalpabili accuse contro anonimi colpevoli del niente ed alte discussioni nei salotti televisivi, dove gigantesche mongolfiere d’aria son quotidianamente poste a friggere dentro gigantesche padelle. 

Si chiama paura. Peggiorata dal fatto che ne son principali attori non degli inesperti escursionisti spaventati dalla primitiva natura di luoghi ignoti, ma quelle stesse guide che su quei sentieri dovrebbero invece condurli.  

Come se l’autista fermasse il pullman solo perché ha avuto un qualche sentore che ignoti malfattori potrebbero forse impedirgli la via sbarrando coi massi la strada. 

Mostrando in tal modo non solo di dar più ascolto alle sue fantasie che non alla realtà, ma di scordare il fatto che è in suo pieno potere (e dovere), qualora tale evento dovesse malauguratamente verificarsi, fermare il veicolo, scendere, spostare i massi e riprendere il cammino.

Come ogni vera guida dovrebbe essere in grado di saper fare. 

  


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