O se un ingegnere musulmano o un costruttore induista fossero autorizzati ad esprimere una valutazione e un giudizio sulla qualità dei sermoni che un sacerdote cristiano porge in chiesa ai fedeli?
Eppure è proprio di ciò che si parla, nel disegno di legge costituzionale attualmente in discussione alle Camere, volto a minare l’indipendenza della Magistratura dal Governo e dal Parlamento. Un progetto che prevede la definitiva separazione delle carriere tra magistrato inquirente e magistrato giudicante – già adesso limitata ad un solo possibile passaggio – e la sostanziale esautorazione degli organismi di controllo interni, sostituiti da un’Alta Corte esterna e sottratta alla presidenza del Capo dello Stato.
Un disegno impropriamente definito «riforma della Giustizia», ma che in realtà altro non è che una non richiesta «riforma della Magistratura».
Due oggetti ben diversi, se non opposti. Dal momento che mentre la Giustizia è materia del Parlamento (che scrive le norme) e del Governo (che tramite il Ministero della Giustizia le rende esecutive) l’applicazione della legge è competenza esclusiva della Magistratura. Che indaga (magistratura inquirente) o giudica (magistratura giudicante). Sotto il controllo di un Consiglio Superiore della Magistratura.
Se l’Italia mostra evidenti carenze nell’amministrazione della Giustizia – ossia nel numero dei tribunali, nella quantità e qualità del personale addetto, nelle dotazioni degli uffici, nelle procedure antiquate, nella lenta o mancata informatizzazione – come si può pensare che per meglio efficientare il sistema si debba intervenire sui poteri della Magistratura, anziché sulle mancanze del Ministero della Giustizia? Se al Parlamento spetta il compito di progettare la cattedrale, ed al Governo quello di costruirla, perché prendersela con il prete se poi l’edificio si rivela insufficiente ad accogliere tutti i fedeli? Non spetta ai sacerdoti costruirne uno più grande. Ad essi si addice solo il dovere di cantar messa, obbedendo in ciò non all’ingegnere o al costruttore, ma al più alto in grado fra di essi, che non sta a Roma ma in Vaticano.
La proposta di riforma oggi in esame desta più d’un sospetto. Più che offrire una soluzione alla lentezza nell’amministrazione della Giustizia, essa pare invece nascondere: a) un maldestro tentativo di scaricare sul terzo potere dello Stato le carenze dei primi due, quali ad esempio l’eccessiva produzione legislativa del Parlamento o l’inadeguatezza strutturale dei mezzi forniti dal Governo; b) un malcelato impulso vendicativo da parte di una consistenze presenza criminale all’interno dei primi due poteri, che non solo non accetta d’esser giudicata dal terzo, ma pretenderebbe di giudicare essa stessa i giudicanti; c) un ulteriore tassello nel processo di accentramento di tutti i poteri nelle disponibilità di un solo partito, in attesa di un auspicato «premier» che finisca col riunirli tutti nelle mani di una sola persona.
La domanda finale è una soltanto: davvero si può pensare che un uomo solo al comando possa accelerare l’amministrazione della Giustizia?
La risposta è sì. Ma solo a patto che si tratti della sua personale Giustizia. Amministrata in suo nome e non in nome del popolo sovrano. Accelerata, certo, ma non per questo migliorata.
Neppure sarebbero necessari corti e tribunali. Altro non occorrerebbe che l’impercettibile movimento di un pollice: ora rivolto all’ingiù, ora all’insù. Ad insindacabile discrezione di colui che qualcuno preferirebbe definire «premier», vergognandosi di indicarlo con quel nome che più correttamente gli riserva la lingua italiana.
Davvero è questo che il Paese vuole e di cui ha più urgente bisogno? Della riedizione a colori di un brutto film già visto in bianco e nero?
Il problema consiste nel fatto, ma non solo in questo campo, quante e quali messe l'ecclesiastico celebra.
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