È in atto il genocidio del popolo palestinese.
Falso. Se si trattasse di un «genocidio», ossia della sistematica eliminazione di un’intera popolazione appartenente ad una determinata «razza» o etnia, sarebbe per Israele assai più facile perpetrarlo sull’intero territorio palestinese, disarmato e non fortificato, che non nella caserma sotterranea di Hamas a Gaza.
Sarebbe per Israele molto più agevole rastrellare casa per casa quei Palestinesi che pacificamente vivono e lavorano nei quartieri di Tel Aviv e Gerusalemme, o nei più sperduti villaggi della Cisgiordania, tradurli nelle carceri o nei campi di sterminio e lì sistematicamente affamarli, torturarli ed ucciderli.
Non diversamente da quel che fece un tempo Hitler nei loro confronti. Non diversamente da quel che ha fatto Hamas il 7 Ottobre.
Rispondere militarmente agli attacchi dei filoiraniani di Hamas, ammassati all’interno dell’angusta striscia di Gaza, per quanto possa infine rivelarsi cruento non potrà mai configurarsi come un «genocidio», ma tutt’al più come un «eccidio». Non lo sterminio programmato di un’intera etnia, ma una quantità spropositata di vittime collaterali innocenti nel perseguimento dell’obiettivo dichiarato. Che è poi quello di disarmare le milizie di Hamas e liberare i 140 civili israeliani ancora nelle mani dei loro rapitori.
Quegli stessi ostaggi che l’ultima delibera ONU imporrebbe ad Hamas di rilasciare «immediatamente e incondizionatamente»: subito e senza alcuna condizione.
I Palestinesi vivevano in tempo in libertà e prosperità, ben governati in uno Stato palestinese, prima che Israele li cacciasse privandoli di ogni cosa per insediarsi con forza sul loro territorio.
Due volte falso. Mai è esistito un vero Stato palestinese, e mai Israele si è insediato con la forza, ma con la legge, in virtù di una Risoluzione ONU del 1947.
Governate da città-stato dedite nel 3000 a.C. ai traffici commerciali, non diversamente dalle vicine città fenicie, le fertili terre che separano l’Egitto dalla Fenicia furono dapprima conquistate nel 1460 a.C. dagli Egizi, che ne deportarono gli abitanti e le dominarono fino al 1170 a.C.
Intorno al XIII secolo a.C, un crescente processo migratorio fece sì che una gran parte degli Ebrei fatti schiavi in Egitto riuscissero ad allontanarsene per stabilirsi infine in Palestina (la «terra promessa»), là dove nuovi popoli, provenienti dal mare, iniziavano parimenti a stanziarsi. Erano i primi Palestinesi (Filistei, o Philistini, in lingua ebraica), le cui differenti credenze religiose diedero il via a un periodo di lunghe ostilità tribali che terminò con la nascita di due regni ebraici (Regno di Giuda e Regno di Samaria, ~ 933 - 722 a.C.), in seguito invasi e conquistati prima dagli Assiri, poi dai Babilonesi, quindi dai Persiani, ancora dai Greci ed infine dai Romani, che con la distruzione del Tempio a Gerusalemme (70 d.C.) diedero inizio alla plurimillenaria diaspora del popolo ebraico.
Settecento anni dopo, a partire dal 500 d.C., l’intera Palestina cadde sotto il dominio dell’Impero di Bisanzio.
Islamizzata durante l’espansione araba (636 d.C.), a lungo teatro di guerra durante le Crociate, nel 1517 d.C. la Palestina entrò a far parte dell’Impero Ottomano, che la conservò fino al termine della Grande Guerra.
Sconfitto e dissolto l’Impero, le terre di Palestina furono provvisoriamente assegnate alla Gran Bretagna (accordo Sykes-Picot, 1916), intesa in seguito (1922) ufficializzata dalla Società delle Nazioni con la nascita del Mandato Britannico della Palestina.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, numerosi Ebrei in fuga dalle persecuzioni europee trovarono rifugio nella Palestina Britannica, dedicandosi principalmente all’allevamento e all’agricoltura.
Il 30 Novembre 1947 una Risoluzione ONU (n. 181) deliberò la spartizione della Palestina in due Stati autonomi e indipendenti: uno arabo ed uno ebraico, con Gerusalemme sotto il diretto controllo ONU. Contemporaneamente stabilì la data di scadenza del Mandato Britannico: il 1º Agosto 1948.
Accolta con favore dalla componente ebraica, la Risoluzione fu duramente contestata dai Paesi arabi nell’area.
Il 14 Maggio 1948, prossima ormai la fine del dominio britannico, la comunità ebraica in Palestina dichiarò unilateralmente la nascita dello Stato di Israele, subito riconosciuto da un gran numero di Paesi, tra cui USA e URSS.
Quel medesimo giorno i Paesi arabi confinanti, ostili alla Risoluzione 181, dichiararono guerra al nuovo Stato ebraico.
Perdendola.
Israele è «di destra», i Palestinesi sono «di sinistra».
Falso. È vero che Israele è oggi governata da forze politiche di destra, come tanti altri Paesi democratici nel mondo, ma è nata guardando a sinistra. Il kibbutz (comunità agricola a gestione collettiva fondata su regole egualitarie e sul concetto di proprietà comune, modello dei primi insediamenti ebraici in Palestina), fu in larga misura ispirato dal modello organizzativo dei primi soviet russi.
I Palestinesi guardarono forse «a sinistra» ai tempi di Al Fatah, l’organizzazione creata dall’egiziano Mohammed ’Abd ar-Ra’uf, meglio noto come Yasser Arafāt, che fu a capo dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) dal 1994 al 2000.
Lontano da ogni retorica o pregiudizio religiosi e fondamentalmente laico, come pure quell’Egitto di Sadat e Mubarak da cui proveniva, nonché abile tessitore di relazioni internazionali, pur non disdegnando il ricorso ad azioni terroristiche Arafāt fallì nel suo progetto di pace, scalzato dalla più retriva destra palestinese di rigida osservanza religiosa, succube dei vicini Paesi arabi e tuttora dominante.
Se essere «di sinistra» significa, nel 2024, essere in primo luogo laici, progressisti e difensori dei diritti umani, Hamas non è certamente nessuna di queste tre cose: regressista, radicalizzato, oppressore di ogni libertà. E ancor meno lo sono quelle forze che lo finanziano, lo armano e lo sostengono. Desiderose non di pace, ma della distruzione di Israele. Forze che mirano ad insediarsi nell’area per assumere il controllo dell’ingresso settentrionale del Canale, oltre a quello meridionale, per fare del Mediterraneo non più un mare ma un laghetto. E indebolire in tal modo il continente europeo.
È questo il «progresso» che chi agita le bandiere palestinesi nelle università e nelle piazze auspica per sé e per il mondo?
O è quello di un popolo di perseguitati fuggiaschi che dall’aratro e dalle pecore han saputo costruire in settant’anni industrie, infrastrutture e città, donando il benessere ad un’intera regione? Con un modello di sviluppo che i più attenti Paesi dell’area, dall’Egitto alla Giordania e allo stesso Regno Saudita, tentano oggi di imitare?
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