E infine, tutti in sella al cavallo elettorale. Sempre che di cavallo si tratti, e non di differente specie equina.
Da Meloni a Calenda, passando per la mancata Schlein, il programma è sempre il medesimo: «Cambiare l’Europa!». Come cambiarla, ovviamente, resta un mistero della fede.
C’è chi vorrebbe abbatterla dalle fondamenta, come Salvini, che pure fu fatto ministro per costruire e non distruggere. Chi, come la Meloni, gradirebbe giusto ingrandirsi la casa e liberarsi dal fastidio (europeo) di dover tenere in ordine i conti, scordandosi che quel che incassa e che spende non è valuta italiana, ma dell’Eurozona. Chi, come il nano Calendolo, si accontenterebbe di mostrare a Renzolo che si può sopravvivere anche senza una proposta politica europea: proposta che la tosca volpe proditoriamente avanza e il gatto romanesco altezzosamente ignora. Chi, come la scoraggiosa extraterrestre Schlein, si spende per spiegare a gran voce contro chi ella combatte (la Destra in Europa!), ma si guarda bene dal precisare invece per chi o per che cosa.
Eppure mai come di questi tempi la posta in gioco dovrebbe essere chiara a chiunque. Non è soltanto in gioco la sopravvivenza stessa dell’Unione, ma quella dell’intero continente, che rischia di veder ancora una volta elevarsi quel muro che l’imprigionò fino al 1989. Con l’aggravante che se allora i padroni non furono che due (USA e URSS), oggi non sarebbero meno di tre, se non quattro: con la partecipazione speciale di Cina ed India e la supervisione armata del mondo islamico.
Se l’Unione corre questo rischio, lo è principalmente per esser rimasta di fatto la sola regione disarmata al mondo. Non solo per le oggettive limitazioni imposte a Italia e Germania dai Trattati di pace del 1947, o per la Brexit, che s’è portata via con sé metà della forza militare, ma anche e soprattutto per l’assenza di una politica di difesa e di una linea di comando comune: poteri che competono solo ad un vero Stato con capacità legislative ed esecutive.
Su questo si andrà a votare a Giugno: non sulla misura delle cozze o sulla bontà della minestra di larve, ma sulla costruzione di uno Stato Federale Europeo – ormai inderogabile – in luogo di un insieme di trattati che tiene malamente insieme alcune nazioni europee. Non tutte e non solo. Perché gli Stati aderenti all’Unione sono altri da quelli dell’Eurozona, ed altri ancora da quelli dell’Area Schengen. Tanto da poter affermare che l’Unione Europea non solanto non possiede al momento alcun potere o rappresentatività, ma neppure dei confini certi o una moneta comune.
Prima della Brexit, quando Mike Jagger era ancora «europeo», avremmo forse potuto illuderci intonando «Time is on our Side». Oggi non più, perché se l’Unione ha un nemico sempre più minaccioso e incalzante, quello è proprio il tempo.
Il tempo è contro di noi. Troppo lenti (e antidemocratici) i processi decisionali, troppo lento il percorso di unificazione, troppo lenta la produzione normativa e legislativa, demandata alle bizze delle sovranità nazionali. E intorno, sempre più pressanti, soffiano forti i venti di guerra.
Incuranti di ciò, solo la piccola compagine renzoboniniana propone la sintetica ma trasparente via degli «Stati Uniti d’Europa». Gli altri partiti, lungi dal preoccuparsi dei tempi sempre più corti, preferiscono confrontarsi su chi ce l’ha più lunga. Chi gettando sul piatto un ringhiante Vannacci, chi accaparrandosi la cima di tutte le liste, chi agitando lo spauracchio eurofascista, chi millantandosi superiore all’idea stessa di Europa.
Forse al solo scopo di far dimenticare alla casalinga di Voghera che una piccola grande arma sta ancora tra le sue mani: la matita elettorale. Una croce per l’Europa, contro chi quella croce, all’Europa, preferirebbe mettercela definitivamente sopra.
Per troppi inconfessabili motivi.
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