I magistrati, non solo in Italia, sono simpatici a pochi. In particolare non lo sono ai delinquenti. Ogni procedura giudiziaria, per sua natura, si conclude inevitabilmente con un vincitore e con un vinto: il primo non potrà che dir mirabilia di chi l’ha giudicato, il secondo lo accuserà di profonda ingiustizia, di odio preconcetto nei confronti di un innocente, di pazzia. Ad ogni processo, il giudice aggiunge alla sua lista un grato riconoscente amico ed un irriducibile nemico.
I guai cominciano quando la criminalità arriva al potere, come accadde alla vigilia della lunga stagione di Mani pulite, dopo che il crollo della Cortina di Ferro pose fine ai grassi finanziamenti che da Est e da Ovest furono per quasi cinquant’anni il carburante del boom italiano e dei partiti che l’hanno gestito.
Rimasti a secco, ai partiti non restò che moltiplicare il pizzo di circostanza fino ad allora richiesto alle imprese, spingendolo a livelli tali da costringere industriali e impresari ad impadronirsi in prima persona delle leve del potere istituzionale: la «discesa in campo» che diede il via alla lunga stagione berlusconiana.
Cominciò allora, nei primi anni Novanta, il tiro a segno sui giudici. O meglio: sui magistrati. Termine che non comprende soltanto i «giudici», ma anche i «pubblici ministeri». I primi tenuti sì alla massima terzietà e imparzialità; i secondi, al contrario, obbligati per legge a stare da una parte sola: quella dell’accusa.
Equivocando sui due ruoli, i troppi criminali assurti a posizioni di potere lamentarono con alte grida la (legittima e dovuta) «mancanza di imparzialità» dei pubblici ministeri. Messi lì non certo per difenderli, ma per accusarli e inchiodarli alle loro responsabilità.
Da allora, quel vento avverso non si è mai placato. Ora in forma brezza, ora di uragano, è un vento che fischia ancora. E da una parte soltanto: quella dei criminali.
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A difendere i giudici non resta che la Costituzione, insieme a quella ristretta minoranza di ligi alla legge che male non fanno e nulla hanno da temere.
La Costituzione, in ossequio a Montesquieu, statuisce che la Magistratura è uno dei tre poteri separati dello Stato: «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere […]» (art. 104).
Ciò significa che la Magistratura, il cui Consiglio Superiore ha per capo il Presidente della Repubblica, è di fatto e di diritto un potere di pari grado rispetto a Governo e Parlamento. Conseguentemente, qualsiasi magistrato è un pari grado rispetto a un ministro o a un parlamentare.
Ciò nonostante, da Mani Pulite in poi son stati infinitamente più numerosi i tentativi di Governo e Parlamento di interferire con l’attività dei magistrati che non i casi in cui la Magistratura ha cercato di influenzare il lavoro di ministri e parlamentari.
Ultima ciliegina in materia: la discussione parlamentare volta ad introdurre non meglio precisati «test psicoattitudinali», per decreto o per legge, nei prossimi concorsi che regolano l’accesso alla Magistratura. Come se l’aver superato le molteplici e complesse prove richieste ad un laureato in Legge per poter sostenere il concorso non fossero sufficienti a garantirne la sostanziale sanità mentale. E come se in qualsiasi concorso pubblico o privato già non esistessero specifiche domande mirate a far emergere eventuali falle psichiche od altri motivi di possibile inadeguatezza al ruolo.
No. È stata necessaria una norma specifica, mediaticamente amplificata e scritta al solo scopo di accendere un sospetto di insanità mentale sull’intero sistema della Giustizia in Italia, che si permette di incriminare chi compie un reato e persino di processarlo. E talvolta – prescrizione permettendo – persino di condannarlo!
Se proprio dovessimo affiancare un aggettivo a questo sbracato provvedimento, teso a screditare coloro che hanno per compito istituzionale applicare quelle stesse leggi che il Parlamento ha il potere di scriversi da sé, quell’aggettivo sarebbe: «inutile».
Inutile al Paese, s’intende. Utilissimo, invece, ad ogni genere di malfattori.
Inutile perché un vincitore di concorso sanissimo di mente potrebbe comunque insanire un mese come trent’anni dopo, ed in tal caso più che una verifica preventiva (peraltro già esistente) varrebbe il controllo costante degli organi preposti, interni alla Magistratura così come interni al Governo e al Parlamento sono quelli che sorvegliano gli altri due poteri dello Stato.
Che altro è, allora, la norma in discussione, se non una medaglietta da appendere al contrario sul petto dei magistrati oggi in servizio. Al solo scopo di screditarne la persona e – soprattutto – l’attività?
Cui prodest? E perché proprio adesso? È forse cresciuto tra i preoccupatissimi parlamentari e ministri il numero di coloro che il male lo fanno e molto hanno da temere? O la benda non è più sufficiente, e vi è chi cerca di completarla con un ancor più utile ed opportuno bavaglio?
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