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Questioni di civiltà

Chi piange la fine di tanti innocenti sotto le macerie della città di Gaza, dovrebbe anche meditare su quali strumenti possano oggi consentire a chi attacca di discernere i civili dagli incivili. 

In una vera guerra fra Stati, esistono le insegne, le uniformi, le divise: gli stendardi e gli elmi piumati degli antichi eserciti, un simbolo sulla coda di un aereo, una mostrina sul petto, la bandiera a poppa della nave. 

Persino i popoli primitivi, quando combattevano nudi, usavano dipingersi il corpo, o gli scudi, per distinguersi dal nemico. E anche un incontro sportivo tra professionisti non sarebbe che una partitella fra amici, se le squadre avverse non indossassero ciascuna i propri colori. 

Finanche i capi di Stato, ultimo Zelensky, vestono abiti consoni quando il Paese è in guerra.  Solo i vigliacchi e le spie, usi a colpire di nascosto e a tradimento, evitano con cura di mostrare alcun segno distintivo. Come i mercenari in Crimea nel 2014, privi di alcuna insegna e spacciati per «rivoluzionari» locali, seppure ben dotati di cannoni e carri di fabbricazione russa. 

«Ma Gaza non è uno Stato, e Hamas non è un esercito», è il ritornello con cui i furbacchioni giustificano la mimetizzazione di terroristi ben armati di bombe, razzi e missili. 

Non lo erano neppure i partigiani italiani, un esercito, nel secondo dopoguerra. Ma non per questo evitarono di distinguersi portando al collo uno sgargiante fazzoletto rosso, verde o azzurro, certificando in tal modo non soltanto lo status di combattente, ma anche il differente orientamento politico. Neppure furono un esercito regolare i sanculotti in Francia, orgogliosi di ostentare nella Rivoluzione il berretto frigio con la coccarda tricolore

Non basta dunque fingersi «resistenti» spontaneamente insorti, privi di struttura gerarchica e vestiti d’abiti civili. Sarebbe un ulteriore vigliaccheria nascondersi dietro il dito del «popolo armato», rendendo in tal modo ogni civile palestinese un possibile bersaglio. Così come possibile bersaglio, agli occhi di Hamas, è qualsiasi ebreo. Dal momento che, essendo obbligatorio in Israele il servizio militare, non esistono (parole loro) veri «civili», ma solo militari in borghese! 

Tutti militari, dunque, in Israele. Ma tutti «civili», in Palestina.

Ma chi allora bombarda Israele dalle sterminate fogne della città di Gaza? Chi guida le spedizioni e i massacri oltre i confini della Striscia? Chi sequestra i civili d’ogni nazionalità e li detiene in ostaggio? 

Non certamente i bambini, questo è sicuro (né a Gaza, né in Israele). Ma se i combattenti si nascondono, ogni uomo o donna nella città di Gaza può legittimamente esser sospettato di essere solidale con Hamas. Ieri con il voto alle urne (56%), oggi militarmente. 

Se davvero Hamas è sinceramente intenzionato a difendere la popolazione civile, trovi il coraggio di venire allo scoperto: indossi una casacca, si dipinga il volto, innalzi un urlo di guerra, così che chiunque possa distinguere il colpevole dall’innocente. 

Le conseguenze di tanto occultare la mano son sotto gli occhi di tutti, e ancor più lo saranno nel volgere di qualche mese, quando le sabbie del deserto rimangeranno infine quel che resta degli oltre tre millenni di storia di Madīnat Ghaza. E non per mano di Israele, ma per la crudeltà, l’ignoranza, la supponenza, la cupidigia di chi ha avuto la possibilità, in quel piccolo fazzoletto di terra loro affidato, di mostrare al mondo il modello in miniatura di quel che sarebbe potuto essere un futuro Stato palestinese: libero, indipendente, guidato e ben amministrato da un governo liberamente eletto. 

Ebbene: su quel sogno plurimillenario di un popolo che sempre è stato schiavo, Hamas ha finito col metterci una gigantesca pietra sopra. 

Tombale.

 

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