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Beghe di pollaio

Ancora una volta pare annullarsi la distanza che separa i tre poteri dello Stato, costituzionalmente obbligati a marciare affiancati, sebbene ciascuno sulla propria corsia, e già giunge all’orecchio il fastidioso stridore delle lamiere che si sfiorano. 

Chi ha oltrepassato la linea bianca? Il carro armato del Governo, l’autobus del Parlamento o la gazzella della Magistratura?

Come in ogni incidente che si rispetti, tutte le colpe son sempre dell’altro. 

È la Magistratura ad aver invaso il terreno della «politica», ossia del Parlamento e del Governo? O è il Governo, uso a debordare sulla parte di strada riservata al Parlamento, a contendere ad esso il diritto di scrivere le leggi? O è ancora il Governo ad invadere la corsia riservata alla Magistratura, nell’intento di piegarla ai propri non sempre limpidi voleri?

Certo ad oltrepassare quella linea non è stata la Magistratura, quando per mano del giudice di Catania Iolanda Apostolico ha sollevato una questione di incostituzionalità circa un decreto del Governo in materia di immigrazione. Non una «legge», si badi bene, votata dal Parlamento e promulgata dal Capo dello Stato, ma un «decreto», ossia un provvedimento d’urgenza emanato dal Governo in attesa che il Parlamento lo trasformi (o meno) in legge.

Fu un giurista francese, tra Seicento e Settecento, ad ipotizzare per primo la necessità di una separazione fra i tre poteri dello Stato, fino ad allora concentrati nelle mani del monarca assoluto. Fu Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, meglio noto come Montesquieu, che nel suo De l’esprit des lois (1748) mostrò come alla base di ogni tirannia vi fosse la concentrazione nelle medesime mani dei tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Quello stesso monarca che dettava le leggi per i propri sudditi, decideva poi se, quando, come e a chi applicarle, per decidere infine se e in quale misura fossero state applicate secondo giustizia. 

La soluzione, affacciatasi dapprima nell’Inghilterra della Seconda Rivoluzione (1688-89), poi ispiratrice la Costituzione degli Stati Uniti d’America (1787-89), quindi alla base della Costituzione Francese del 1791 ed oggi fondamento di ogni Stato moderno, consistette nel distinguere nettamente i tre poteri (per ciò detti «separati») affidandoli a tre differenti istituzioni poste così in grado di controllarsi vicendevolmente.  

La Costituzione italiana definisce con precisione nella Parte Seconda gli ambiti di competenza di ciascuna di esse: al Titolo I (il Parlamento); al Titolo III (il Governo); al Titolo IV (la Magistratura). Al Parlamento spetta il compito di scrivere le leggi; al Governo quello di renderle esecutive; alla Magistratura il controllo sulla loro effettiva applicazione, e l’eventuale irrogazione delle previste sanzioni. 

Sportivamente metaforizzando: il Parlamento scrive le regole del gioco, il Governo le mette in pratica sul campo, la Magistratura arbitra. 

Che accadrebbe, in ambito sportivo, se i giocatori pretendessero di scriversi di volta in volta da sé ogni regola, e disconoscessero le decisioni dell’arbitro? Sarebbe più che legittimo il sospetto che la squadra in campo intenda truccare la partita.

Un Governo insofferente alle regole (che coerentemente si guarda bene dall’osservare) ambirebbe scriversene di nuove e di propria mano, sebbene abbia ampiamente mostrato al mondo di non esserne capace e, al minimo fischio di fallo, accusa la Magistratura di giocare al fianco dell’avversario, piuttosto che del regolamento. E minaccia non soltanto di voler cambiare le regole di gioco, ma persino le modalità di reclutamento degli arbitri. 

Forse le luci dei riflettori e l’occhio delle telecamere han fatto sì che i giocatori in campo si sentissero in qualche modo superiori ad altri, gloriandosi magari delle panzane d’età berlusconiana che elevavano il coordinatore del Consiglio di Ministri al rango di «premier», «primo ministro», «capo del governo». Quale in Italia tuttavia non è. 

È vero invece il fatto che, al momento, in Italia, un qualsiasi magistrato è a tutti gli effetti un pari grado rispetto ad un qualsiasi parlamentare o ad un qualsiasi ministro. Presidente del Consiglio incluso. 

Se è dunque vero che il presidente Meloni e il giudice Apostolico sono due figure istituzionali del medesimo livello, quale delle due si è mostrata più insultante e aggressiva nei confronti dell’altra? Quale delle due ha osato porre in dubbio il corretto operare dell’altra? Quale delle due si è spesa per delegittimare, con ogni mezzo a propria disposizione, gli atti istituzionali dell’altra? Quale delle due ha minacciato interventi legislativi (pur non avendone la competenza) volti a limitare le prerogative dell’altra? 

Se invasione di corsia vi è stata, ad oltrepassare la doppia linea è stato senz’ombra di dubbio il rozzo e pesante carro armato del Governo. Non certo la gazzella a sirene spiegate della Magistratura.

Resta un’ultima considerazione da appuntare: non è questo il solo incidente stradale causato da Governi irrispettosi della segnaletica costituzionale. Non si tratta dell’unico, ma soltanto dell’ultimo. 

Da Mani Pulite in poi, da quando per la prima volta (1992) la Magistratura ha (doverosamente) posato gli occhi sui comportamenti e sulle ruberie di tutti i partiti, nessuno escluso, dal più votato fino agli ultimi arrivati, la terza istituzione dello Stato è diventata oggetto di vendicativi attacchi persino da parte di quelle forze politiche che sulla scia di un tale terremoto son nate e prosperate, truppe berlusconiane in testa. 

Ebbe inizio allora quell’ininterrotta stagione di frizioni fra la cosiddetta «politica» (movimenti e partiti) e la Magistratura, sorvolando più d’una volta sulla sostanziale differenza che corre tra la Giustizia (che fa capo al Governo e NON funziona), e la Magistratura (che risponde al solo Capo dello Stato e invece funziona). 

Semplificando, potremmo dire che se spetta al Parlamento redigere le Sacre Scritture (le leggi), al Governo compete costruire gli edifici di culto. Compito della Magistratura è invece quello di cantarvi messa. E se dovesse entrar acqua dal tetto della chiesa o mancare l’energia elettrica, il solo responsabile del malfunzionamento sarebbe il Governo, non certo la Magistratura.

Far marciare la Giustizia è lavoro del ministro, a cui spetta erigere tribunali e preture, carceri e riformatori, assumere uscieri, guardie e cancellieri, organizzare tempi e procedure, stabilire se i verbali debbano esser scritti a mano o al computer. 

Al magistrato compere invece indagare su ogni crimine di cui sia venuto a conoscenza, rinviare o meno alla sbarra i sospettati e successivamente valutare l’innocenza o la colpevolezza degli imputati, per poi eventualmente quantificare e comminare la pena.

Un magistrato può sbagliare? Un magistrato può soltanto sbagliare, e sbaglierà sempre: perché sempre una delle due parti in conflitto sarà destinata a soccombere, e ai suoi occhi la sentenza di condanna non potrà mai esser meno che sbagliata.

Se poi un magistrato dovesse realmente commettere degli errori (accade anche questo), per ignoranza, per malafede o quant’altro, sarà sempre possibile ricorrere a due ulteriori gradi di giudizio. Se un sacerdote dovesse dare i numeri, esiste pur sempre un vescovo, se non addirittura il Papa, pronto a rileggere le carte e ad emettere un giudizio di grado superiore. 

Non è attaccando briga con la Magistratura che si risponde alle necessità del Paese. 

Così come esiste un codice della strada, esiste un galateo istituzionale. Che consiste nel riconoscere non soltanto l’indipendenza ma anche l’autorità del potere (separato) dello Stato che ciascuna delle tre istituzioni incarna. 

Ed operare insieme, ciascuno sulla propria corsia. Non certo l’uno contro l’altro. 

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