Cos’è che fa sì che quelle frontiere tanto naturalmente protette siano di fatto alla mercé di chiunque, a fin di bene o a fin di male, intenda violarle, seppur con l’ausilio di quei traghetti di Stato che fan da scafisti tra Lampedusa e la Sicilia (una volta e mezzo più distante che non Lampedusa dall’Africa)?
Quel che determina la differenza è un articoletto di legge che solo l’Italia ha ritenuto opportuno inscrivere nella prima parte della propria Costituzione.
È l’art. 10, che in quattro brevi commi così statuisce:
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• 1. L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.• 2. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
• 3. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Quanto stabilito nel comma 4 richiama il contenuto del successivo art. 26 della Costituzione, che ancora ribadisce:
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• 1. L’estradizione del cittadino può essere consentita soltanto ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali.• 2. Non può in alcun caso essere ammessa per reati politici.
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Pur rilevando il fatto che il dettato dell’art. 10 c.4 è riferito allo «straniero», mentre l’art. 26 c.2 è indirizzato ai soli cittadini italiani, va ricordato come due sentenze della Corte di Cassazione (la 120/1967 e la 104/1969), contemperando i contenuti dell’art. 3 (che riconosceva ai soli cittadini italiani i diritti fondamentali) con quelli dell’art. 2 (che impone in Italia il riconoscimento dei diritti universali dell’uomo) hanno sostanzialmente esteso a chiunque risieda sul suolo italiano, anche solo temporaneamente, tutti quei diritti che l’art. 3 riconosceva un tempo ai soli titolari di cittadinanza.
È dunque fuor di dubbio che chiunque possa dimostrare di subire nel proprio Paese una persecuzione per motivi politici abbia pieno diritto di risiedere in Italia e non possa essere estradato.
I citati c.1 e c.2 dell’art, 10, d’altronde, fanno espresso riferimento alle norme internazionale, nello specifico alla Convenzione di Ginevra del 1951: quella che detta le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato per motivi politici.
L’art. 31 della medesima Convenzione di Ginevra legittima inoltre l’eventuale forzoso ingresso illegale del fuggiasco in uno degli Stati aderenti:
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• Gli Stati Contraenti non prenderanno sanzioni penali, a motivo della loro entrata o del loro soggiorno illegali, contro i rifugiati che giungono direttamente da un territorio in cui la loro vita o la loro libertà erano minacciate nel senso dell'articolo 1, per quanto si presentino senza indugio alle autorità e giustifichino con motivi validi la loro entrata o il loro soggiorno irregolari.
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La richiesta dello status di rifugiato può dunque essere avanzata anche da chi abbia raggiunto illegalmente l’Italia, fatta salva la necessità di esporre quei «motivi validi» che hanno impedito al fuggitivo di servirsi delle vie ufficiali: regolare richiesta d’asilo al Consolato italiano nel Paese di provenienza e conseguente rilascio in loco di idonei documenti di viaggio.
Se i contenuti dei commi 1, 2 e 4 dell’art. 10, ispirati dal diritto internazionale, poco differiscono da quelli, similari, presenti nelle legislazioni degli Stati partner, quello che marca invece una profonda distanza non può che essere il restante comma 3, che esplicitamente riconosce un «diritto d’asilo» (esclusivamente nazionale, non riconosciuto pertanto a livello internazionale) a chiunque provenga da un Paese che abbia uno statuto in qualche modo differente dalla Costituzione italiana.
In pratica: tutto il mondo. E pianeti non soltanto limitrofi.
Un abitante del Texas o della Florida, dove vige la pena di morte, non godendo per ciò dei medesimi diritti che l’Italia garantisce ai propri residenti (non poter esser mandato a morte) è pienamente legittimato a chiedere la protezione umanitaria e, immancabilmente, ad ottenerla.
Una donna proveniente da Malta, stato comunitario dove l’aborto è illegale, può chiedere ed ottenere asilo in Italia ai sensi del medesimo art. 10.
Un suddito britannico, che non gode nel suo Paese dell’assistenza sanitaria gratuita, ha diritto ad essere accolto in Italia in regime di protezione umanitaria e ad essere curato gratuitamente negli ospedali italiani.
Si tratta ovviamente di casi limite, riferiti a società evolute senza problemi immanenti di fame, di guerre, di catastrofi naturali, di tortura. Ma se l’art. 10 c.3 apre teoricamente le porte anche a chi non ha urgenti problemi di sopravvivenza, è facile immaginare con quanta maggior facilità quei permessi umanitari possano (e debbano, per legge) esser concessi a chi proviene dalle aree più svantaggiate del pianeta.
Se esiste dunque un articolo costituzionale dove sta scritto a chiare lettere che l’Italia è tenuta ad accogliere chiunque si presenti, legalmente o illegalmente, davanti alle proprie frontiere, in cosa consisterebbe dunque il problema?
In Italia non c’è più un re, a scriver le leggi. Gli Italiani, da cittadini di una repubblica parlamentare quali essi sono, le leggi se le scrivono da sé. E qualora non dovessero andar bene, le cambiano. Se gli Italiani han scelto di ospitare nel loro Paese chiunque gli entri in casa, dalla porta come dalle finestre, han pieno diritto di farlo. Nessuno può legittimamente impedirglielo.
Un problema, tuttavia, c’è.
Il problema sta nella inaccettabile pretesa che, onde consentire all’Italia di osservare il suo (e soltanto suo) articolo 10 c.3, e cioè l'impegno a tener spalancato il portone di casa, i restanti Paesi firmatari dell’area Shengen possano essere obbligati a mantenere a proprie spese sul loro territorio un consistente numero di quei soggetti che, fuori dallo Stivale, non hanno (e mai avranno) alcun diritto d’asilo o di accoglienza, se non per scelta volontaria. Una richiesta che l’Italia avanza non in virtù di comuni impegni sanciti da uno o più trattati internazionali, ma di un articolo della propria legge costituzionale, in nessun modo vincolante al di fuori dei propri confini.
Che tale auspicata ripartizione dell'inesauribile moltitudine di fuggitivi autorizzati a varcare gli italici confini non possa avere alcun futuro, lo dice senza tema di fraintendimento l’art. 5 c.2 della Convenzione di Schengen, laddove mentre tollera la possibilità che uno degli Stati membri possa concedere a chi meglio crede permessi di soggiorno o di residenza in deroga al trattato, impone che il titolare di quel permesso non possa in alcun modo abbandonare il territorio del Paese che l’ha rilasciato. In questo caso, l’Italia.
Un’autorizzazione concessa sulla base di una norma nazionale, in sostanza, non può aver valore alcuno se non sul territorio nazionale.
Rimasta sola col cerino (da essa stessa) acceso in mano, l’Italia non ha dunque davanti a sé che due possibilità: o si riscrivono i trattati di Schengen – missione quasi impossibile – col voto unanime delle 27 nazioni (comunitarie ed extracomunitarie) che ne fanno parte, o si riscrive l’art. 10 della Costituzione italiana.
O meglio: neppure occorrerebbe riscriverlo. Sarebbe sufficiente normarlo.
I padri costituenti, con saggia preveggenza, hanno avuto l’accortezza di concludere il comma 3 dell’art. 10 con la prudente formula «…secondo le condizioni stabilite dalla legge». Lasciando in tal modo al legislatore ordinario (il Parlamento) la possibilità di meglio precisare le regole in base alle quali decidere, caso per caso, l'opportunità di concedere o meno tali permessi.
Non son dunque necessari i tempi lunghi e le difficili convergenze che accompagnano ogni riforma costituzionale, la cui approvazione richiede molteplici votazioni e la maggioranza qualificata del Parlamento, ma è sufficiente il voto della maggioranza semplice.
Una più circostanziata definizione degli ambiti applicativi dell’art. 10 potrebbe ridurre sensibilmente le richieste d’asilo accolte con motivazioni estranee alla persecuzione politica, contribuendo a limitare i flussi in misura certamente più efficace di qualsiasi improponibile «blocco navale», con un costo ed un impatto sociale decisamente inferiori a quelli connessi alla costruzione e al mantenimento di quei Centri di Rimpatrio che, già nel nome, sono in aperto conflitto con quell’art. 10 che qualsiasi rimpatrio dichiara per legge illegittimo e impossibile.
Ma esiste oggi, in Italia, una qualche volontà politica di normare l’art. 10?
La risposta è: certamente no.
Nessuno in Italia ha da guadagnarci alcunché nel dar soluzione a una vicenda – quella migratoria – che finché riempie le prime pagine dei giornali è un pieno di carburante gratuito per le battaglie elettorali tanto dell’affamata ala faccendiera del governo quanto di un’opposizione a corto di argomenti, pronta a benedire ogni minimo spunto che le consenta di innalzare il livello sonoro della consueta cagnara.
Più facile spacciare per «soluzione» l’ennesimo «decreto-rave»: una finta legge che punisce assai duramente un reato che non esiste, pur di non applicare le leggi che già esistono.
Una forza politica realmente progressista (se solo ce ne fosse una), piuttosto che accodarsi al pietismo vaticano, allo scaricabarile governativo o ai blocchi marittimi di scuola lumbard-neanderthaliana, dovrebbe battersi per una legge ordinaria che, a completamento dell’art. 10 c.3 della Costituzione, ne armonizzi i contenuti con gli statuti degli altri Paesi Schengen.
Sarebbe un’iniziativa utile non soltanto al presente, ma proiettata verso il futuro: uno strumento aggiornato per meglio controllare e selezionare gli accessi in Italia (indispensabile premessa ad ogni eventuale proposta di ripartizione tra Paesi dell’Area) ma anche un concreto passo in avanti verso l'indifferibile costruzione della futura Europa Federale.
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