Quest’anno l’agostana sorte ha baciato in fronte il medagliatissimo generale Roberto Vannacci, già comandante in Afghanistan, quindi capo delle brigate paracadutisti «Col Moschin» e «Folgore», poi ancora in missione in Somalia, Ruanda, Yemen, Bosnia, Libia, Iraq, e solo da tre mesi al comando dell’Istituto Geografico Militare di Firenze. Incarico, quest’ultimo, revocatogli in data 18 Agosto su disposizione del ministero della Difesa.
Cinquantacinquenne, alle soglie di una pensione che per i militari giunge sempre un po’ prima rispetto ai comuni mortali, il generale ha voluto togliersi qualche faraglione dalle scarpe fissando su carta alcuni propri (e non soltanto propri) pensieri in un corposo volume (373 pagine) dal non originalissimo titolo «Il mondo al contrario».
Al contrario di che? Al contrario di come il mondo viene quotidianamente raccontato all'esterno dei bar e delle sale da biliardo. Un mondo dove il fracasso mediatico che circonda ogni rivendicazione minoritaria supera quello di ogni piagnisteo maggioritario, diffondendo l’illusione di un’Italia dove la volontà dei più sia costantemente schiacciata dalla volontà dei meno.
Tanta opera letteraria non è passata inosservata. Spinta dapprima dal passaparola tra chi la pensa allo stesso modo ma non dispone del coraggio necessario per gridarlo ai quattro venti e, infine, dall’inatteso clamore agostano che ha diffuso la novella su radio, giornali, televisioni, social (e blog). Tanto che in pochi giorni il titolo è schizzato al primo posto tra le vendite Amazon.
Il contenuto dell’opera può essere facilmente riassunto: tutte quelle idee che un militare costretto per troppi anni a mordere il freno e ad obbedir tacendo, senz’altre occasioni di confronto col mondo esterno se non quelle di ricevere ordini ed impartirne a sua volta, avrebbe voluto strillare ad alta voce al mondo ma che ha sempre prudentemente tenuto chiuse dentro di sé. Fino all’inevitabile esplosione.
Tra i primi ad esser colpiti dalle schegge, i ministri più esposti di un governo melonianamente impegnato a sbiancare ogni vecchia traccia di nero in cerca di più larghe alleanze sul fronte europeo, terreno di scontro della prossima tornata elettorale, più che mai intento a marcare le distanze tra un’auspicata destra «di governo» e le tarde frange legopoluliste che pure lo sostengono.
Immediata è stata quindi la reazione del ministro della Difesa, in qualche modo forzato a destituire dal recente incarico il generale dalla penna inopinatamente in mano, anziché sul berretto. Costringendo allo scoperto quei troppi fratelli di partito che le idee del neo-scrittore non vedevano invece l’ora di condividerle dalla prima all’ultima, nel rimpianto di un mondo che più non esiste, se non nella narrazione russocinese o in quella di qualche vecchio film alla Humphrey Bogart: dove i maschi sono maschi, le femmine sono femmine, i criminali son criminali, i poliziotti son poliziotti e i negri sono negri.
Che dire? Si tratta di idee stupefacenti, il cui consumo – come per ogni altra sostanza stupefacente – è tollerato dalla legge solo per uso personale e in modica quantità. Ma di cui è severamente proibito lo spaccio.
E forse sta qui l’imprudenza, o l’inopportunità, se non proprio la colpa, nel comportamento del prestigioso ufficiale.
Nello stesso istante in cui si sceglie di indossare una divisa, si sceglie (liberamente) di incarnarne il presente, il passato e tutto ciò che essa identifica e significa. Chi sceglie di fare il pompiere rinuncia ad essere incendiario, chi veste la tonaca del frate si scorda le conquiste in discoteca, chi indossa una tuta sportiva antepone le fatiche dell’allenamento alle grandi abbuffate e alle lunghe dormite. Chi ha scelto la carriera militare ascendendone in breve tempo i gradi, forte di tre lauree sufficienti a marcarne la distanza dai più retrivi discorsi da taverna, dovrebbe aver appreso quale potente e micidiale arma possa talvolta rivelarsi il silenzio. Mai come oggi, in questo mondo chiacchierone e sguaiato, uso ad esprimersi come le folle sulle curve di uno stadio.
Nessuno intende limitare al generale la libertà di espressione che la Costituzione gli garantisce. Nessuno se non egli stesso, che quella limitazione l’ha volontariamente sottoscritta quando ha deciso di diventare parte di un corpo militare: corpo ben più vasto e assai distinto da quell'altro corpo che la natura gli ha donato. Un corpo con proprie particolari esigenze, proprie specifiche funzioni, e un proprio istinto di sopravvivenza. Un corpo capace di mantenersi in salute liberandosi di volta in volta da tutti quegli organismi estranei che ne minacciano l’esistenza.
Il generale, nell’urgenza di mondare le calzature dalla catena alpina che s’era colà evidentemente andata pian piano annidandosi, si è ritrovato ad essere senza volerlo (o senza saperlo) un virus. Mai come nel suo caso, virale.
Eppure, se il mondo è sino ad ora progredito è solo perché i virus ha saputo ogni volta combatterli e annientarli. Chi si dichiara, a parole, «progressista», dovrebbe ben saperlo. E schierarsi dalla parte del progresso, piuttosto che felicitarsi per ogni piccola rotella che minacci di bloccare un meccanismo di cui si ignora il funzionamento. E per ciò stesso lo si teme.
Il generale, che certo non poteva ignorare quali conseguenze avrebbe avuto il suo gesto, non ha esitato ad accettarle e farle proprie, pur riservandosi di fornire ogni necessaria spiegazione. Le accettino anche i suoi nemici, oltre che i suoi amici. La saldezza di una nazione è assai più importante delle intemperanze dei singoli.
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