Per chi lo ha amato, è un atto di dovuto rispetto. Per chi lo ha odiato, non c’è peggior dispetto. Perché la sola cosa che poteva farlo imbestialire era l’indifferenza. Come una qualsiasi primadonna: amatemi, odiatemi, ma guardatemi e parlate/sparlate di me.
Ora che il sipario è calato, è il tempo dei lunghissimi titoli di coda. Sulle sue e sulle altrui televisioni. Sui suoi e sugli altrui giornali.
Mentre troppi già si scannano per spartirsene le spoglie, quelle monetarie e quelle politiche, salgono i titoli azionari con diritto di voto, antipasto di sanguinose battaglie per impadronirsi dei consigli di amministrazione, e lingue bavose e adulatrici si srotolano a caccia di orfani politici da arruolare in quei magri partitini che aspirano a diventarne eredi.
La vita ha abbandonato Berlusconi, ma non la fortuna, che gli ha concesso di lasciare il mondo terreno sotto un governo amico, tra più o meno interessate lodi e con gli onori di un funerale di Stato.
Non vorremmo unirci né all’interminabile schiera dei cordoglioni, né a quella ancor più ripugnante di chi intende celebrarne la dipartita danzando e ubriacandosi nei rave allestiti dall’ARCI-Blob di Arcore. Vorremmo piuttosto sottolineare due elementi finora ignorati dalla tempesta di coccodrilli riversatasi in questi giorni sui teleschermi e sulle pagine dei giornali.
Berlusconi è stato innanzitutto un Milanese. Con tutti i pregi (pochi) e i difetti (molti) dei Milanesi. Ha accompagnato, se non ispirato, la fine dell’età industriale in quello che fu un tempo il cuore produttivo del Paese, fatto di acciaierie, fabbriche di automobili, motociclette ed elettrodomestici, liquorifici, cartiere...
Scomparsa l’industria, quel Milanese ha saputo trasformare la seconda risorsa cittadina, l’editoria, da prodotto cartaceo in prodotto multimediale, dando in pasto agli Italiani vecchi format americani mai visti sui canali nazionali e finendo con l’orientarne in senso edonista i modi di vita fino ad allora impregnati di parsimonia post-bellica, concretezza e sentimento cattolico della famiglia.
Contribuendo, forse inconsapevolmente, a rimpiazzare in modo lineare e indolore la puzza delle fabbriche con i profumi della moda e del made-in-italy, in una Milano ormai tramutatasi in capitale della comunicazione e dell’effimero. Forse l’unica città italiana ad aver positivamente portato a termine la transizione dalla produzione materiale a quella immateriale.
Un’altra considerazione trascurata da adulatori e detrattori è l’impatto che una tale formazione d’assalto di televisioni e giornali ha avuto sulla lingua italiana. Il berlusconismo rampante ha imposto nel Paese l’uso di una terminologia spesso errata o impropria, ma utilissima alla (sua) causa.
Ancor oggi in Italia la parola «imprenditore» (titolare di impresa), non soltanto ha sostituito quella più congrua di «impresario», ma si è allargata fino a comprendere qualsiasi categoria di lavoratore autonomo. In Italia si usa definire «imprenditore» anche un gestore di bar, un negoziante, un autista di piazza, un rivenditore di bibite, un falegname, un idraulico, un affittacamere...
Per contro anche i sindacati, vista prosciugarsi la base con la fine dell’età industriale, hanno reagito allargando la definizione di «lavoratore» dall’occupato in fabbrica, privo di alcuna formazione specifica, fino a comprendere il gestore di bar, il negoziante, l’autista di piazza, il rivenditore di bibite, il falegname, l’idraulico, l’affittacamere...
Quando poi, nel 1994, Berlusconi fu nominato presidente del Consiglio, non si accontentò di quel titolo, i cui poteri la Costituzione italiana equipara a quelli degli altri ministri, e riuscì ad imporre il termine «premier», o «primo ministro», quando non addirittura quello di Capo del Governo. Senza tuttavia disporre dei poteri né degli uni, né dell’altro. Chiese poi d’esser chiamato «presidente», equivocando sulle cariche aziendali e sportive e atteggiandosi in tal modo a capo di Stato.
Similmente impose l’uso di chiamare «governatori» i presidenti delle giunte regionali, quasi fossero anch’essi dei capi di Stato, con poteri di grazia ed autonomia esecutiva.
Che dire poi della parola «escort», fino ad allora ignorata dai più, che alimentò la stagione della lingua inglese usata come foglia di fico per addolcire ogni parola dal significato altrimenti impresentabile?
Una Milano da passerella e un lingua manomessa. Due tra le tante eredità – malauguratamente non patrimoniali – che il rumoroso passaggio terreno del patriarca lascia a tutti gli Italiani.
Citate le quali, ogni altra parola spetta ora alla Storia.
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