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Sana e robusta Costituzione

C’è tanta ignoranza e malafede dietro l’inatteso assalto sferrato dalla litigiosa maggioranza governativa contro la Costituzione italiana: potenziale vaso di Pandora la cui minacciata apertura ha presto messo in subbuglio l’irrequieto stuolo dei partiti, partitini e movimenti, col consueto codazzo di facce losche in cerca di notorietà. 

L’ignoranza consiste nel pensare che la Costituzione sia una legge come le altre: un dettagliato elenco di obblighi e non invece una necessariamente sommaria dichiarazione di intenti. 

La malafede sta nel voler far credere agli Italiani che il brancolare nel buio che ha sin qui caratterizzato l’azione (?) del governo non dipenda dalla manifesta incapacità di un’improvvisata classe dirigente – ma poco diligente – che neppure riesce a spendere i fondi generosamente assegnati dagli altri Paesi europei, tutelare i confini, far rispettare le leggi, ma da una Costituzione vecchia e sorpassata che lega loro le mani, ostacolandone l’azione. Moderna variante del «non ci lasciano lavorare!».

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Chiunque abbia provato a dar vita ad una qualsiasi associazione benefica, sportiva, culturale o ricreativa, per non parlare di un’impresa o di un’azienda, sa benissimo che lo Statuto che ne illustra gli scopi e il percorso per raggiungerli non è un bersaglio da centrare immediatamente e ad ogni costo, ma solo il progetto di un complesso edificio da costruire nel tempo, con i mezzi di cui si saprà e si potrà di volta in volta disporre. 

Esistono associazioni nate per cancellare la fame nel mondo, squadre che hanno per obiettivo lo scudetto, imprese che intendono conquistare i mercati, ma nessuna pretende di riuscirvi in poche settimane. Nei loro statuti costitutivi han scritto nero su bianco quel che esse sono e quel che vorrebbero essere, ma i modi ed i tempi da altro non dipendono se non dalle capacità chi le dirige e di chi vi opera.

Cambiarne gli statuti, come pure talvolta accade, significherebbe cambiarne la natura: un maglificio che diventa calzaturificio, un cinema che diventa teatro, un centro culturale che diventa pizzeria. Una rinuncia agli ideali originari, che è insieme l'ammissione di un fallimento.  

È questo che vuole realmente l’Italia? Cancellare la propria natura di Repubblica Parlamentare per diventare invece una Repubblica Presidenziale? E per qual motivo? E a vantaggio di chi?

Uno Statuto, quale dal 1948 è la Costituzione italiana, definisce un’identità nazionale ed elenca un certo numero di obiettivi qualificanti, il cui perseguimento è affidato ad una struttura organizzativa ben definita. 

Troppo facile, per l’ingegnere incapace, denunciare l’inadeguatezza del progetto. 

Così come un grande musicista sa trarre grandi melodie persino da uno spartito scritto con mano incerta, un buon governo sa costruire un grande Paese anche a partire da una Carta scritta in modo sommario, quando non addirittura (come in Gran Bretagna) inesistente, affidata alla sola tradizione orale. 

Figuriamoci quando uno Statuto nasce invece dalla concorde volontà delle migliori menti politiche del dopoguerra, che sul collaudato impianto dell’antico Statuto Albertino han voluto redigere una Costituzione rigorosamente dettagliata ma allo stesso tempo aperta ad ogni possibile futura evoluzione, purché nel solco della sovranità popolare, della libertà, dell’uguaglianza.

Ogni Costituzione traccia il campo di gioco e ne scrive le regole. Quelle stesse che ogni membro dell'attuale governo, insediandosi, ha giurato in pubblico di «osservare lealmente». 

Osservare. Ma, possibilmente, non toccare.


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