Così come il decreto rave impedisce di perseguire i reati minori che ne discendono, l’annunciato ridimensionamento dei permessi speciali rischia di finire impallinato dalla Corte Costituzionale per evidente conflitto col comma 3 dell’art. 10 che – solo in Italia – riconosce illimitato diritto d’asilo praticamente a chiunque: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge».
Con questa norma, anche un nababbo texano in fuga col suo aereo privato avrebbe diritto d’asilo in Italia, dal momento che in quello Stato vige la pena di morte e dunque non può godere dei medesimi diritti che la Costituzione riconosce agli Italiani. Figuriamoci chi sbarca da Paesi che neppure riconoscono il diritto alla mera sopravvivenza dei propri sudditi, cittadini o compagni.
Senza una revisione dell’art. 10 (praticamente impossibile, dal momento che richiederebbe una riforma costituzionale a maggioranza parlamentare qualificata) o quanto meno la promulgazione di una legge che ne definisca l’ambito di applicazione (possibilissima, come il citato comma 3 per altro auspica e consente), l’emendamento limitativo dell’anomalia dei permessi speciali potrebbe infine rivelarsi uno dei tanti fuochi d'artificio governativi: molto rumore per nulla. E un provvedimento altrimenti giusto nella sostanza rischia di finire azzoppato prima ancora di veder la luce. Non per la rumorosa cagnara di una scompaginata opposizione che immagina con John Lennon un mondo senza nazioni che al momento non esiste, ma proprio a causa dello strumento prescelto: un fragile emendamento, anziché una vera e propria legge che, a partire dall’assunto dell’art. 10, ne disegni e delimiti in modo circostanziato gli ambiti applicativi.
Lasciati alla fantasia del momento, privi di un’effettiva regola, i permessi in deroga son diventati negli anni il cavallo di Troia con cui governi inetti e pigri han tentato di salvare capra e cavoli, evitando le fatiche e i costi di un efficiente controllo delle frontiere e raccogliendo gli applausi di quei neosamaritani regressisti che i confini nazionali li vorrebbero aperti e incontrollati h24, ma che si guardan bene dal far lo stesso in casa propria, dove giorno e notte il portone d’ingresso lo tengon chiuso a doppia mandata: spranga, catenaccio e pure l’allarme.
Buonisti col portone degli altri, questi signori han sinora confidato nel fatto che i clandestini, premiati col permesso (speciale) di muoversi liberamente su tutto il territorio nazionale, ne avrebbero prima o poi approfittato per varcare nuovamente le frontiere in direzione di altre nazioni più ricche e accoglienti dell’Italia.
Come in effetti è per lungo tempo avvenuto.
Fino al giorno in cui i Paesi confinanti, ma non per questo fessi, hanno scoperto il gioco e preteso il rispetto del comma 2 art. 5 della Convenzione di Schengen, in base al quale tutti i permessi (speciali) concessi in deroga da un Paese firmatario hanno valore soltanto sul territorio del Paese che li ha rilasciati.
Gli accampamenti di fortuna sbocciati dal nulla lungo le frontiere con la Francia stan lì a dimostrare che né i «protetti» intendono rispettare quella norme, né l’Italia ha alcuna intenzione di obbligarli a farlo. Anzi: ci si lagna con la Francia perché osserva la legge anziché ignorarla, e chiude le proprie frontiere a chi non ha i documenti in regola.
Inutile strillare contro i Paesi vicini: hanno ragione loro. Inutile invocare inutili «modifiche di Dublino», le cui norme non riguardano in alcun modo i fuggiaschi, o i clandestini, o gli emigranti, ma soltanto quei pochissimi perseguitati per motivi politici aventi diritto allo status internazionale di rifugiati. Inutile pretendere l’intervento dell’«Europa» (leggi Unione Europea), dal momento che non tutti gli Stati dell’Unione fanno parte dell’Area Schengen, che include invece non pochi Stati extracomunitari. Inutile frignare lamentando una maggiore esposizione dell’Italia all’emergenza migratoria, quando le Alpi e il mare ne fanno al contrario uno dei Paesi dai confini più sicuri: assai più di quelle nazioni impegnate a presidiare migliaia di chilometri di frontiere lungo le vaste pianure centroeuropee.
Non è un modo serio di comportarsi.
Nessuno ha costretto l’Italia a chieder di far parte dell’Area Schengen. Nessuno le impedisce di lasciarla quando meglio crede. Nessuno le vieta di aprire le proprie incustodite frontiere a chiunque. Ma a spese proprie. Senza alcuna pretesa di coinvolgere in ciò gli altri Stati dell’Area, siano essi europei od extraeuropei.
Stupisce ancora come i fautori della cancellazione di ogni frontiera si dichiarino «di sinistra», ostendando come sinistrissimo il fermo proposito di abbatterle. Scordandosi del tutto la vicenda del muro di Berlino, e di quale tra le due Germanie si prese la briga di erigerlo.
L’ultimo argomento che anima da qualche giorno i demolitori d’ogni reticolato è l’idea che il crollo della natalità in Italia renda non soltanto necessario, ma indispensabile, l’afflusso di nuove braccia e nuovi cervelli per far fronte alle crescenti necessità del mondo produttivo.
Si tratta di una considerazione apparentemente sensata. Mentre del tutto insensata è l’idea che ad occupare quei posti di lavoro non debba essere un congruo numero di immigrati regolari e auspicabilmente già formati, ma qualunque fuggiasco che riesca in qualsivoglia modo a posare il piede su di un qualsiasi scoglio che ricada sotto la giurisdizione italiana. Equiparando in tal modo l’ospite che entra in casa dalla porta principale, possibilmente bussando, a chi vi penetra invece di nascosto, nottetempo, da qualche finestra lasciata distrattamente aperta. O, peggio ancora, forzandola.
Che nell’Italia in decrescita sussistano oggi opportunità lavorative per un numero consistente di immigrati, è un dato reale sotto gli occhi di tutti. Che tali opportunità a quegli immigrati debbano invece esser sottratte, preferendo ad essi dei clandestini sbarcati irregolarmente nel Paese, è solo una delle infinite forme di suicidio che l’italica furbizia riesce periodicamente a escogitare.
— Che fare? – si sarebbe domandato quel signore un po’ pelato che di sinistra lo era per davvero.
La sola risposta, in un regime costituzionale repubblicano, non può che essere la legge.
Leggi in materia già esistono: dalle norme internazionali che regolano il diritto d’asilo dei perseguitati alle norme comunitarie che regolano i permessi in deroga su base umanitaria; dalla citata Convenzione di Schengen alle leggi nazionali per il controllo delle frontiere. Si tratterebbe soltanto di farle rispettare, quelle leggi. Di renderle esecutive, affinché non restino soltanto carta inchiostrata. E questo è (dovrebbe essere) il compito del potere esecutivo, che nell’ordinamento italiano compete (competerebbe) al governo.
Se solo ne fosse capace.
Per adesso, dal governo non sono emerse che proposte tanto velleitarie quanto confuse, dall’impossibile blocco delle navi ONG operanti in acque extraterritoriali al tentativo di scaricare la selezione dei fuggiaschi a quei Paesi africani che da decenni ci lucrano sopra; dall’impossibile chiusura dei porti al tentativo di coinvolgere i Paesi dell’Unione Europea (?), inclusi quelli che dell’Area Schengen non fanno parte.
La questione migratoria andrebbe invece meglio affrontata distinguendone i differenti aspetti: da un lato il problema di ordine pubblico (il crescente numero di sbarchi di fortuna sulle coste meridionali italiane), dall'altro la questione legale (il controllo dei requisiti di chi intende entrare nel Paese).
Per quanto concerne il primo punto occorre considerare come la gran parte degli sbarchi di fortuna avvenga a Lampedusa, che dall’Africa dista 140 km (ma dalla Sicilia ben 210 km) e che molte delle imbarcazioni che con difficoltà riescono oggi a raggiungere l’isola, preferendola addirittura a Pantelleria (a soli 70 km dall’Africa), difficilmente sarebbero in grado di spingersi fino alla costa siciliana.
Una soluzione potrebbe quindi essere l’istituzione di una zona franca a Lampedusa e Pantelleria, affinché ogni sbarco che avvenga in una di quelle due isole non possa più configurarsi come un ingresso all’interno dei confini doganali italiani e dell’Area Schengen. Così come non lo è, in qualsiasi porto, l’atto di scendere in banchina da una nave nell'area che precede i controlli di frontiera. I maggiori disagi delle popolazioni, costrette ad ospitare sia pur temporaneamente un più alto numero di sbarchi in attesa di visto o di rimpatrio, sarebbero ampiamente compensati dalle molte esenzioni fiscali connaturate allo status di zona franca.
L’ultimo punto, ossia il controllo dei requisiti di chi intende varcare i confini, non è che un mera questione organizzativa: occorrono più addetti alle frontiere, norme chiare e inequivocabili, accordi di reciprocità coi Paesi di provenienza per meglio organizzare i necessari rimpatri.
Centottantaquattro volte più grande dell’originale americano e con un minor numero di arrivi, Lampedusa potrebbe diventare la Ellis Island d’Italia, sede operativa esterna ai confini nazionali, attrezzata con personale e strutture specializzate in grado di provvedere nel migliore dei modi a una rapida ed efficiente gestione dei flussi migratori.
Qualcosa di ben diverso, insomma, da quello che si presenta oggi al mondo come il decimo, mai narrato, dei gironi infernali danteschi.
Commenti
Posta un commento