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Coppole e cravatte

C’era una volta il padrino. La sua forza consisteva nel dar vita un piccolo Stato là dove lo Stato, quello vero, non c’era. 

Riscuoteva denaro tra la popolazione attiva (pizzo anziché tasse), gestiva commerci in regime di monopolio (droga anziché alcol e tabacco, prostituzione in strada anziché case chiuse, gioco d’azzardo anziché Lotto e Totocalcio); assumeva personale (gorilla anziché poliziotti), cercava consenso distribuendo soldi ai più poveri (reddito di manovalanza, anziché di cittadinanza) e amministrava la giustizia (killer spietati anziché giudici). 

Garantiva a suo modo un ordine, laddove un ordine non c’era. E tanto bastava a legittimarne l’autorità tra i popolani, in mancanza d’altro. 

La cattura dell’ultimo padrino, malandato nel fisico e nostalgico nello spirito, come testimoniano la quantità e la qualità della paccottiglia che ne arredava le ultime dimesse dimore, segna la fine di una criminalità tutto sommato artigianale, non di quella organizzata. Che nel frattempo, anzi, si è organizzata ancor meglio: infiltrandosi tra le maglie larghe della legalità e lasciando ad altri i più marginali ambiti dell’illegalità. 

Le antiche fonti di reddito delle passate mafie sembrano essersi ormai inaridite. Le tasse le riscuote in misura sempre maggiore lo Stato, lo spaccio è in mano a Sudamericani e Nigeriani, così come la prostituzione di strada, svenduta a prezzi da biglietto cinematografico, o autonomamente gestita on-line, e il gioco d’azzardo è stato in gran parte riassorbito nell’alveo della legalità.

Non c’è più ciccia, in sostanza. E neppure sussiste la necessità di un potere alternativo, con uno Stato ormai presente anche nelle aree più periferiche, capillarmente raggiunte dai nuovi strumenti di comunicazione. 

Ma gli immensi capitali accumulati in passato dalle mafie ancora sopravvivono, proficuamente impiegati in più lucrose e meno cruente attività. Nelle costruzioni di (pessime) strade e (pessimi) edifici pubblici, nello smaltimento «alternativo» dei rifiuti tossici e in quello «ecologico» dei rifiuti urbani, voluto da chi combatte gli inceneritori, nel business delle cosiddette energie rinnovabili, nei contratti capestro dei rivenditori di energia elettrica e negli infiniti meandri di una spesa pubblica che un’interessata «autonomia» rende di fatto impossibile tracciare e controllare. Senza scordare le pubbliche concessioni, dalle aree balneari alle acque termali e minerali, dai taxi ai trasporti pubblici: licenze temporanee poco più che regalate che si tramandano tuttavia di padre in figlio per un tempo spesso assai più lungo della vita di tante imprese private. 

Non è più tempo di padrini, ma di padroni. Che si nascondono là dove nessun poliziotto potrà mai scovarli: sotto gli occhi di chiunque, in televisione e sulle prime pagine dei giornali, nei palazzi del potere – quello vero – e non nelle nascoste ville barocche del Sud. Non sparano, né mettono bombe, ma solo perché non hanno veri nemici, non perché siano diventati più buoni. Si scrivono le leggi, le farciscono di provvidenziali emendamenti, si comprano chi dovrà votarle. 

E dei padrini d’un tempo non resta che un brutto magnetino cinese sullo sportello di un vecchio frigorifero nella cucina di uno squallido appartamento di Campobello di Mazara. 

Buono per un prossimo film.

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