Dieci risposte per dieci domande.
1. Il piddì è un partito di sinistra?
Occorrerebbe definire in primis cosa mai si intenda per «sinistra». Ogni volta che qualcuno si accinge a farlo, l’esito è l'istantanea nascita di un’ulteriore formazione politica. Ovviamente «di sinistra».
Anzi, della «vera e autentica» sinistra: Marx e Lenin, ma anche Stalin; Trotzky, ma anche la piccozza che lo ha steso; Palmiro Togliatti, ma anche Enrico Letta; l’aria pesante delle sezioni, ma anche la moquette dei consigli di amministrazione; la lotta, ma anche il governo. In un infinito susseguirsi di ossimori.
Ma se per «partito della sinistra» si vuol indicare il partito marxianamente e non marzianamente inteso, ossia l’organizzazione grazie alla quale una classe sociale emergente e avanzante (il proletariato) sostituisce al potere una classe sociale corrotta e decotta (la borghesia) con le buone (il voto) o con le cattive (la rivoluzione), ebbene: «quella» sinistra non ha più alcuna ragion d'essere. Per via dell’incontestabile fatto che il proletariato come classe sociale ha cessato di esistere: è scomparso con la fine dell’età industriale, negli anni Novanta in America e dal Duemila in Europa. Sopravvive (ancora per poco) in Cina, ma con minori problematiche, dal momento che sta già al potere. Nasce adesso in Africa, ma sotto totale controllo cinese.
Orfane del proletariato, alcune molecole di quella sinistra che fu han pensato bene di crearsene uno nuovo, eleggendo a classe sociale ora i fattorini delle consegne a domicilio, ora gli agricoltori, ora i piccoli negozianti e gli artigiani, ora i lavoratori dipendenti tout court.
Altri, come il piddì o le camicie gialle di Conte, han fantasiosamente provato a sostituire il proletariato con i «poveri», eufemisticamente chiamati «meno abbienti», incuranti del fatto che chiunque, a questo mondo, è «meno abbiente» di qualcun altro.
Che proletari e poveri siano cose ben diverse, se non addirittura opposte, ebbe già modo di teorizzarlo lo stesso Marx: classe sociale i primi, costretti a vivere gomito a gomito la medesima vita in fabbrica o in miniera, e dunque animati da comuni rivendicazioni e comuni problemi; cani sciolti i secondi, poveri ciascuno a modo suo, per i motivi più disparati: chi è appena uscito dal carcere e chi è fisicamente menomato, chi ha perso tutto alle corse e chi se l’è speso in droghe, chi rifiuta il lavoro e chi è sommerso dai debiti…
Pensare di sostituire il proletariato (che più non c’è) con i poveri (che sempre ci son stati e sempre ci saranno) e dedicarsi interamente ad essi può anche essere un nobile quanto improbo ideale, finora egregiamente perseguito dalle Chiese d’ogni religione e da milionari in vena di beneficenze, dall’Opus Dei come dai Rotary e dai Lions. Se davvero il piddì vuole unirsi al mucchio, è il benvenuto, e può già prenotare una nuvola qui da noi in Paradiso.
Ma che c’entra l’elemosina con la sinistra, che alla mano tesa in cerca di carità ha sempre opposto il pugno chiuso di chi coscientemente combatte per una vita libera e dignitosa?
2. Il piddì è un partito popolare?
No. Il popolo non vota piddì. Il popolo vota a destra. Come ben sapeva nonno Marx, quando rimarcava la distanza tra il proletariato, classe sociale unita, e il lumpenproletariat, sottoproletariato ignorante in disaccordo su tutto. I primi con in tasca «L’Unità» o «Il Manifesto», gli altri coi settimanali illustrati, avidi di pettegolezzi su principi e regine, o persi tra le pagine rosa delle gazzette sportive.
Certo: nella sfrenata corsa ad accaparrarsene il voto, il piddì non ha talvolta esitato ad abbassarsi agli infimi livelli di quei ceti popolari, recandosi francescanamente di persona nei bassifondi cittadini (promossi per l’occasione a «periferie», manco fossero l’EUR o l’Olgiata) per meglio parlare agli animali e convertire i lupi in agnelli. Con la «a» minuscola.
Un partito che voglia essere popolare finisce presto per ruzzolare lungo la china di quel che i politicanti (populisti) chiamano «populismo», che consiste nell’accondiscendere (o fingere di farlo) alle più astruse e improbabili richieste che giungono dagli strati più bassi della popolazione: siano esse la liberalizzazione degli stupefacenti, l’abolizione delle carceri, la cancellazione delle tasse, l’apertura indiscriminata delle frontiere, la libera occupazione della proprietà pubblica e privata.
È una fortuna, dopotutto, che il piddì non sia ancora del tutto un partito popolare. Ma una buona parte degli iscritti non vede l’ora che lo diventi, magari asservendosi a chi sulla pelle del popolo già da tempo ci lucra e ci mangia. Sedandolo con le paghette di nullafacenza.
3. Il piddì è un partito laico?
No. È un partito di forte ispirazione cattolica, sottospecie francescana, fortemente convinto che gli ultimi debbano essere i primi e, più d’ogni altra cosa, che i primi debbano essere gli ultimi. In ogni caso molto, molto, molto, molto dietro di loro.
4. Il piddì è un partito progressista?
No. Al contrario, si oppone a tutto quel che possa in qualche modo rappresentare un progresso per il Paese e/o per l’umanità.
Guai ad asfaltare un’autostrada o costruire una ferrovia, figuriamoci un ponte tra due regioni! Il piddì chiama «nuove tecnologie» i telefoni portatili di trent’anni fa e preferisce il cineforum alla televisione, pur in totale assenza di sale cinematografiche, serenamente defunte. Il «progresso», per quel partito, è la sostituzione dell’automobile con la bicicletta, in attesa che anche quest’ultima lasci il posto agli scarponi e infine ai sandali. E le deserte piste ciclabili ai sentieri di montagna. Meglio se in salita.
È il falso ideale della decrescita felice, cavallo rubato agli ultimi degni alleati, nemici dei rigassificatori e amici di cinghiali e rifiuti. Il mito di un'antica età dell'oro fatta di mulini bianchi (in realtà neri per lo sporco) e antiche gelaterie del corso (dove i padri portavano in premio i figli a guardare i signori mangiare il gelato).
5. Il piddì è un partito democratico?
No. Se il principio cardine della democrazia consiste nel privilegiare le scelte della maggioranza, pur senza ledere i legittimi diritti delle minoranze, il piddì preferisce agire in direzione ostinata e contraria: privilegiando i ghiribizzi delle più improbabili minoranze a scapito dei desiderata della maggioranza.
Più che a un partito, somiglia un sindacato o a un’associazione di categoria: sempre pronto a rivendicare con forza il particulare in spregio del preminente interesse generale.
6. Il piddì è un partito europeista?
Dipende. Anche il concetto di «europeismo», così come quello di «sinistra», è uno spartito che suona diversamente a seconda di chi lo interpreta. Nessuno tra i partiti italiani osa dichiararsi pubblicamente antieuropeista. Interpellati a proposito, rispondono tuttavia all’unisono di auspicare «un’altra Europa». Piddì incluso. Guardandosi bene, s'intende, dal precisare quale.
Sarebbe più corretto chieder loro se sono favorevoli o meno alla nascita di uno Stato federale europeo o se preferiscono mantenere stancamente in vita la formula dell’Unione Europea, priva per definizione di qualsiasi potere legislativo, esecutivo e giudiziario, senza una polizia o un esercito o leggi federali o una moneta comuni all'intero territorio.
Il piddì è oggi un partito vagamente europeista, secondo convenienza, ma feroce avversario dell’eurofederalismo.
7. C’è ancora bisogno di un piddì in Italia e nell’Unione?
Di questo piddì, covo di baroni felicemente intortatisi nei posti chiave di municipalizzate, regionalizzate e statalizzate, quelle che già c’erano come quelle inventate lì per lì, sicuramente no.
Di un nuovo piddì laico, democratico ed eurofederalista, capace di attrarre a sé la parte più attenta, evoluta e preparata della società civile, certamente sì.
Se solo un partito di tal fatta esistesse.
8. Chi potrebbe – e dovrebbe – votare il piddì di domani?
Chiunque si sentisse rassicurato da un programma di governo serio, realistico e coerente, da attuarsi nel quadro di una maggiore integrazione europea in senso federale, più attento a quel che costituisce la spina dorsale del Paese (economia, scuola, sanità, benessere, sicurezza, difesa) che non al suo epitelio (bonus, regalie, bizze, frizzi, canne, mode e bandiere arcobaleno).
9. Il nuovo piddì dovrebbe allearsi con Calenda o con Conte?
Con nessuno dei due, appurato che nel linguaggio del piddì «allearsi» è sinonimo di svendersi, rinnegare le proprie idee (avendone!) e sposare quelle dell’alleato. Asservendosigli.
I partiti possono e debbono quando necessario convergere sui contenuti dell’azione politica, quando comuni e condivisi. Non certo sulle idee, che devono restare identitarie e distinte. O cesserebbero d’esser «partiti» per diventare invece «uniti», ossia l’esatto contrario.
Si può prestare attenzione alle istanze liberaldemocratiche o popolari del Paese senza doversi per questo sdraiare sui partiti che le cavalcano, e che finirebbero per attribuirsi tutto il merito degli eventuali risultati raggiunti.
10. C’è ancora nel piddì qualche faccia presentabile in grado di rappresentare una ritrovata unità del partito, rinsaldandola, che abbia sufficiente prestigio e autorevolezza per poter dialogare con profitto in un contesto mondiale ed europeo?
No.
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