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Viva la fuga!

I cinquegrilli scoprono l’«equidistanza»: né con la Russia, né con l’Ucraina. E lanciano l’idea di una grande marcia «per la pace», pensata sul modello delle grandi processioni medievali contro la peste, la siccità, le carestie, le cavallette, il colera. Nella ferma convinzione che la pubblica autofustigazione, unitamente ai canti, alle preghiere e alle alte grida, non potrebbe non restituire automaticamente pace e prosperità al mondo intero.

Con una sostanziale differenza, rispetto ai più convinti penitenti dell’età oscura: un conto era il chieder perdono ai Cieli affinché lenissero quelle che si pensava esser punizioni di provenienza divina; un altro è implorare clemenza ad un crudele assassino dai cui colpi le vittime cercan soccorso, così da potersene in qualche modo difendere. 

Un Dio merita certamente ogni supplica o preghiera. Un assassino no. Fingere di non comprenderlo si chiama vigliaccheria: degna di chi si è sempre dichiarato «né di destra, né di sinistra» e che, evitando accuratamente di schierarsi, propugna un mondo dedito all'egoistica contemplazione del proprio ombelico, saziato dalla paghetta del babbo di cittadinanza.

Nessuno a questo mondo desidera la guerra, così come nessuno desidera la miseria o la malattia. Ma se la malattia improvvisamente si presenta, è giusto e doveroso combatterla. Se la miseria si presenta, è giusto e doveroso combatterla. Se la guerra si presenta, è giusto e doveroso combatterla. E non lo si può fare se non con l’aiuto degli altri: il malato chiede aiuto al medico, il misero una mano a chi può aiutarlo, l’aggredito il sostegno dei vicini minacciati dal medesimo aggressore.

Perché di aggressione – e non di guerra – più precisamente si tratta. 

Possiamo chiamare guerra uno scontro tra due forze tanto immensamente sproporzionate? Un combattimento dove si muore da una parte sola? Nessuna città, nessuna popolazione sul suolo russo è stata finora in alcun modo colpita. Molte città sul suolo ucraino sono state rase al suolo e intere popolazioni selvaggiamente trucidate. 

E non per punizione divina, ma per volontà di un demonio. Che ha un nome e un cognome. Che lancia fuoco e fiamme e più vaste ancora ne minaccia. Che va pertanto fermato.

Basterà una processione?

Vista dagli spalti, una partita di calcio con trenta giocatori contro tre è comunque per molti un bello spettacolo, non così dissimile da quello un tempo offerto da tre gladiatori armati di rete e pugnale contro trenta leoni voraci. O dal pugile da cento chili che ne massacra uno da cinquanta. O dal bimbo aggredito dai bulli all’uscita da scuola, materia appetitosa per telefonini affamati di immagini da rilanciare in rete. 

Ma se i trenta leoni, dopo aver pasteggiato coi gladiatori, balzassero d’improvviso al di qua della rete, come ringhiando minacciano di voler fare? O il pugile rivolgesse i guantoni contro il pubblico? O i bulli strappassero il telefonino dalle mani di chi osserva e non agisce? Basterà una processione a fermarli?

Quella che i cinquegrilli van preparando altro non è che una pubblica manifestazione di ignavia e di paura: le prelibate pietanze di cui i malvagi e gli oppressori si nutrono. Lasciar le vittime al loro destino e strizzar l’occhio al carnefice. Apparentemente «equidistanti», ma in realtà furbescamente al fianco di quest’ultimo, nell’ingenua quanto tremebonda speranza di non esserne divorati. 

Continuando magari a spacciarsi per coraggiosi rivoluzionari, senza accorgersi di incarnare invece quella spregevole caricatura di italico voltabandiera così magnificamente narrataci, nel cinema del dopoguerra, da Totò ad Alberto Sordi. Senza scordar Tognazzi.

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