La prima reazione in casa piddì è stata l’avvio del cantiere congressuale. Fortemente voluto dall’occhiuta quanto malungulata tigre, disposta peraltro a farsi signorilmente da parte.
La seconda, come da tradizione di partito, è stata la singolare idea di mutar nome e bandiera. Nuovi battesimi in cerca di nuove verginità.
Come da copione l’assalto al trono dei numerosi e non sempre degni pretendenti, ciascuno col proprio ricettario medico: chi propone iniezioni di demagogia cercando conforto tra le braccia dei cinquereduci, in piena decrescita felice; chi invece consiglia compresse calendiane, all’aroma di liberalismo, dagli incerti effetti collaterali renziani: rasserenanti per alcuni, conturbanti per altri.
Nato locomotiva, come la gloriosa H2-293 che riportò Lenin in patria scatenando la gloriosa Rivoluzione d’Ottobre, il piddì si riscopre invece vagone, disperatamente in cerca di una qualsiasi sbuffante motrice. Foss’anche lo svaporato trabiccolo del pochettato che grida vittoria pur avendo dimezzato i voti, o i cegghevàra de noantri che mostran la coscia chiedendo passaggi a Putin e chiaman «progressismo» qualsiasi spranga, legno o bastone infilato tra le ruote del progresso. Quello vero.
Eppure, forte dei voti di un quinto degli elettori, il piddì avrebbe tutti i titoli per candidarsi alla guida di un'auspicabile quanto necessaria opposizione.
Se solo ricordasse cos’è e come si fa.
Mai come nella legislatura che si annuncia, guidata da una forza così limpidamente indicata dalle urne e tuttavia priva di alcuna esperienza, l’opposizione sarà chiamata ad esercitare con coscienza e competenza il proprio ruolo istituzionale di contenimento e di controllo. E non può esistere alcuna vera opposizione senza una visione del futuro del Paese più valida e appetibile di quella della maggioranza. Alternativa nella sostanza, non solo nei dettagli.
Cambiar nome e insegna al ristorante non serve a migliorarne il menu: occorrono nuovi cuochi e nuovi piatti, senza per questo allontanarsi dal solco della migliore tradizione della ditta. Così ben riassunta dalle denominazioni delle testate di un tempo, «L’Unità» e «Rinascita», prematuramente assassinate nell’insulsa ricerca di un «nuovo» fine a se stesso.
Unità, contro ogni ulteriore frammentazione. E autentico desiderio di Rinascita: interiore, prima ancora che esteriore.
Se il piddì continuerà a preferire il maquillage alla politica, mostrandosi incapace di elaborare una proposta che sia davvero propria, piuttosto che involata in casa altrui, finirà col lasciare entrambi i ruoli ai vincitori: quello di governo e quello di controllo dell’operato di governo.
E sarà il brutto sequel di un film che l’Italia ha già visto.
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