Con questo stesso atteggiamento, distante dallo spirito della nostra Costituzione quanto può esserlo un cittadino italiano da un suddito romano, le coalizioni imposte dall’Imperatore Rosatellum si apprestano ad azzannarsi nell’italica arena. In una competizione elettorale che poi tanto elettorale non è, dal momento che chi tenterà di esprimere il proprio voto non potrà manifestare alcuna preferenza né per un candidato, né per un partito, ma solo per un estemporaneo quanto fragile accordo tra formazioni politiche di idee spesso diametralmente opposte.
Che senso ha allora, se la regola è questa, parlare di «vittoria»? Che significa «vincere», in un siffatto contesto?
Ai tempi dell’Impero, vincere nell'arena significava sconfiggere ed uccidere l’avversario, conservare la vita e conquistare meritata fama. Ed erano la forza e l’abilità del gladiatore a decidere chi avrebbe infine avuto la meglio sul campo.
In una competizione elettorale che ha (dovrebbe avere) come solo ed unico scopo quello di scegliere (eligĕre) i seicento Italiani più degni di rappresentare il popolo nelle due camere del Parlamento, invece, una «vittoria» è sempre sicura e certa: poiché i seicento scranni saranno comunque occupati e il popolo italiano comunque rappresentato. A differenza dei gladiatori nell’arena, inoltre, non saranno né la forza né l’abilità di una delle coalizioni in lotta a determinarla, ma la maggiore o minore approvazione che esse riceveranno dall’eterogenea folla assiepata sugli spalti.
Sempre che una folla ci sia. Cosa alquanto dubbia, considerate la bella stagione e la pochezza dello spettacolo.
Sarà dunque la quantità degli applausi, piuttosto che la forza delle armi, a decidere chi tra i contendenti potrà salvare la pelle e chi è invece destinato a dissolversi nel nulla.
Le coalizioni in gara l’hanno capito benissimo. Per questo motivo, mentre roteano in cielo gladi e tridenti inutili e spuntati, tentano di accattivarsi gli spettatori promettendo loro doni, condoni, favori, privilegi e regalie. Ovviamente a spese degli spettatori medesimi: i soli, fra tutti coloro che riempiono l’arena, tenuti a pagare un biglietto.
Così, alla vigilia dello scontro, lo schieramento brancaleonpiddino si appresta a dar fuoco alle polveri bagnate del decreto Zan, dello ius sòla, dei diecimila euro ai diciottenni, della canna bis e tris per tutti. Non udendo alcun applauso al di fuori del partito (e neppure tutto) carica a palle incatenate il cannone promettendo una mensilità aggiuntiva per tutti ed un misero aumento di stipendio agli insegnanti (entro dieci anni). Lisciando il pelo ad un ceto professionale ritenuto, chissà perché, particolarmente devoto, sollecitando una croce sulla scheda da parte dei diciottenni alle prime urne, o il voto riconoscente di quegli stranieri a cui una facile cittadinanza consentirà di esprimerlo, o il fumoso grazie di quel 20% di giovanili braccia restituite all’agricoltura, purché rigorosamente cannabinoide.
Le orde barbaromeloniane si affidano invece alle malridotte bombarde del presidenzialismo e dei blocchi navali: due catorci che han dato in passato pessima prova di sé. Il primo più volte cavalcato ora dai berlusconici, poi dai dalemalcolici, quindi dai lawrenzi d’Arabia, e regolarmente stroncato sia in sede parlamentare che referendaria. Il secondo, ai fini della regolamentazione degli ingressi, assai meno efficace di quella Convenzione di Schengen che l’Italia non vuole o non è in grado di applicare, ma capace di evocare il suon di sciabole di antiche religiose battaglie che meglio si confanno al clamore di una campagna elettorale sguaiata e strillata. Mentre la caccia all’applauso è affidata alle moltiplicate promesse di condoni fiscali e alla difesa dei privilegi balneari, tassinari e mattonari, con l'aggiunta dalle consuete dentiere per tutti (fossero state mantenute le precedenti promesse, nessun Italiano avrebbe oggi meno di 128 denti in bocca) e milioni a vagonate. Distribuiti a pioggia, ma con gocce un po’ più grandi destinate alla platea elettorale dei salvosilviomeloniani.
Con simili armi da carro carnascialesco e siffatte promesse da guaritori ambulanti, nessuno dei due contendenti può realisticamente pretendere di riuscire ad annientare l’avversario. Rischiano piuttosto del farsi del male a vicenda.
Mentre le due star dell’arena fan la mossa d’azzuffarsi, quel Conte che non sa far di conto e quel Centro che nulla centra tentano di accalappiare per via piacionista quella fetta di pubblico che, infastidito dall’invereconda sceneggiata, dispensa ai combattenti più insulti che applausi. Quando addirittura non abbandona deluso e indispettito gli spalti.
Il feudatario grillista, passato in pochi anni dal dal 32,68% a meno del 19%, così come l’emiro saudita crollato dal 40,8% al 2%, han capito che per far crescere il pubblico occorre migliorare lo spettacolo. Nella speranza di riportare alle urne qualcosina in più di quel 73% che vi si recò nel 2018, ma che le inedite calure estive e l’infimo livello dei contendenti minacciano di smagrire fino a un pericoloso 40%.
Mentre il feudatario lancia l’amo nella pozza agitata dalla melma grillina, ancora indecisa tra il doppio petto e il gilet giallo, il mancato sindaco di Roma strizza l’occhio a quella che un tempo si usava definire «maggioranza silenziosa», bramosa di pacifica serenità e proficua continuità sotto il segno del buongoverno.
Sarà necessario attendere la presentazione delle liste – che già vedono accalcarsi un consistente numero di mogli, con minaccia di amici e cognati – prima di poter azzardare pronostici su una maggiore o minore affluenza rispetto alla consultazione del 2018.
È bene tuttavia ricordare che in quell'occasione il risultato più sorprendente lo portarono a casa due formazioni appena nate (o rinate), come lo furono allora i cinquegrilli da un lato e una lega debossizzata e sprovincializzata dall’altro. Due forze dimostratesi capaci di intercettare e portare alle urne gruppi sociali e fasce d’età non direttamente interessati al voto, ma evidentemente mossi da una qualche forma di spinta ideale. Per giusta o sbagliata che poi rivelata si sia.
Così, il dubbio è che la vera sorpresa di Settembre possa arrivare non da quel pubblico che poco numeroso sonnecchia annoiato nell’arena, ma da chi è rimasto fuori: da una nuova audience più sensibile alla qualità delle proposte che non alle facili promesse. Dalle capacità del feudatario di imprimere una nuova appetibile identità (la prima?) agli scompaginati resti dei cinque meno meno stelle e dall’abilità del gatto e la volpe nel motivare ed attrarre nuove fasce di elettorato deluso e pronto meglio ad imprigionarsi in casa, pur di non ritrovarsi con una matita in mano ed una scheda elettorale sul muso. Persone che tuttavia non esiterebbero a mettersi in fila per votare, se ciò fosse realmente loro concesso. E per far ciò la prima più seria e più importante promessa delle forze in campo, seppur col difetto di non comportare alcun maggior costo per lo Stato, dovrebbe esser quella di dare al Paese una vera legge elettorale. E, come ciliegina, quella di inserirla in Costituzione, così che nessuno possa manometterla in quei mesi, o settimane, che precedono il voto.
Qui in Paradiso ci è proibito scommettere, e neppure sapremmo cosa mettere in palio. Ma, se potessimo, ci giocheremmo le ali che sarà più facile udir la biascicata voce chi vi offre altre dentiere da metter magari sotto le ascelle, o il tono compunto di chi vi fa dono di ventimila euro per il compleanno e dieci per l'onomastico, che non la promessa di ripristinare ed assicurare nel vostro sventurato Paese la libertà di voto. Se non per questa, quanto meno per le prossime consultazioni elettorali.
Ove mai si tenessero.
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