Fra le tante parole di cui aule, giornali e tiggì periodicamente si innamorano (prima ancora di immaginarne il significato) tra ridondanti abbuffate di «resilienza», «migranti», «sinergia», «postura», «sostenibilità», «transizione», «ristoro», «cabina di regia» (ex «tavolo»), il termine che ovunque ultimamente dilaga è «fibrillazione». Inteso non nel senso letterale di alterazione cardiaca dall’esito quasi sempre mortale, ma in quello purtroppo soltanto figurato di «stato di agitazione, di nervosismo».
Fibrillano i cinquezampe, sull’orlo della dissoluzione finale, fibrillano i salviniani, che in quanto a cagnara pretendono di non esser da meno. Fibrilla di conseguenza il piddì, che vede offuscarsi l’illusione di poter sommare stelle e gatti (5+4) nell’ancor più grande illusione di mandare al tappeto i salvosilviomeloniani alle urne. Fibrilla infine il governo, di fronte a una tal schiera di talpe, vermi e roditori fibrillescamente intenta a scavargli il terreno sotto i piedi.
Fortuna vuole che a tener testa a tanta stupida e ignorante incoscienza ci sia un uomo del peso di Draghi, fedele solo e soltanto alla Costituzione, non possedendo altro partito da anteporle. E il presidente del Consiglio non ha certo perso l’occasione per rimarcare la distanza che necessariamente quanto nettamente separa la politica dalle istituzioni. Perché un conto è ascoltare e prender nota delle istanze e rimostranze che provengono da partiti, associazioni e sindacati, un altro è piegarsi di fronte a ricatti e ultimatum che né possono né debbono influenzare l’azione di governo, il cui compito altro non è che quello di servire («amministrare») il Paese.
Solo nelle repubbliche popolari, come lo sono la Cina, il Bangladesh, l’Algeria, la Corea di Kim, il Laos, il popolo (il «Paese») è rappresentato dai partiti/o. Nelle repubbliche parlamentari il popolo si identifica invece con il Parlamento, e solo ad esso il governo è tenuto a obbedire e rispondere.
Nel caso specifico, poi, il governo Draghi è quel che usualmente si definisce un governo d’emergenza, o di unità nazionale, nato dall’impossibilità delle forze parlamentari di giungere a un qualsiasi accordo tra di esse. Tutto ciò in presenza di una grave emergenza economico-sanitaria come quella che la pandemia ha a suo tempo rappresentato ed ancora rappresenta.
Se domani Giovedì 14 Luglio il Senato riunito per convertire in legge il DL 50 già approvato dalla Camera, pur in presenza di forti minacce belliche, debolezza della moneta, crisi energetica e recrudescenze inflazionistiche, riterrà che ogni emergenza sia cessata, bene farà il presidente Draghi a dichiarare esaurita la propria funzione e a rimettere l’incarico, come preannunciato, lasciando al Capo di Stato il compito di nominare un nuovo governo più aderente alla mutata situazione.
Fra tanta gente che fibrilla, Draghi è il solo che brilla. E non sarebbe da uomo qual è accettare soluzioni parziali e abborracciate come il restar lì a reggere il moccolo a quattro capipartito che si azzannano fra di loro su stupidaggini come cannabis o superbonus, condoni fiscali a debito o altre regalie, in vista di un confronto elettorale combattuto a suon di denari e non di idee.
Senza una vera unità nazionale, non possono esistere governi di unità nazionale.
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