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Poco pubblico in sala

Se la sala è vuota, sarà colpa del pessimo spettacolo o della «irreversibile crisi del teatro»? Sarà per via di un pubblico sempre più involuto e ignorante, o dei guitti incapaci di stare su di un palcoscenico? Sarà stato indigesto il copione o ignobile la recitazione? O entrambe le cose?

Se la domanda la si rivolge a un attore, egli non potrà che accusare il brutto copione: — Non ci son più i grandi autori di un tempo! 

Se la si porge a un autore, certo se la prenderà col pubblico bue: gente sempliciotta ed ingrata, incapace di comprendere una scrittura d'avanguardia. 

Se la si indirizza ad uno degli (scarsi) spettatori, quello si lamenterà delle ore perse davanti a uno spettacolo tanto insulso quanto inguardabile.

Stavolta, alle elezioni amministrative e referendarie di metà Giugno, ad andar deserte son state le urne, non le platee. Affluenza del 20,9% tra gli aventi diritto al voto per i cinque referendum; del 54,7% per il primo turno delle comunali.

Anche in questo caso, autori ed artisti accusano in coro il pubblico imbecille. Qualcuno rispolvera l'idea di estendere il voto ai sedicenni, quasi a voler inconsciamente confessare che elezioni di tal fatta son diventate ormai roba da ragazzini, se non proprio da bambini. Altri incolpano lo strillone: pochi manifesti, poca réclame, poco servizio pubblico! Altri ancora le premature calure estive. Senza che nessuno si interroghi sulla bontà o meno dello spettacolo. 

A voler parlar degli attori (sorvolando su quei pochi cacciati dal palco un minuto prima del sipario, intrallazzati con ogni mafia) è pur vero che laddove son stati presentati personaggi validi, questi hanno raccolto voti. Indipendentemente dalle forze che li hanno supportati. Quanto agli autori (i partiti diversamente anfrattati sotto l'ombrello di mille liste civiche) l'atmosfera è stata quella di un'allegra festa campestre dove chiunque si intruppava con chiunque, rinnegando famiglia e antenati, purché ci fosse mezza gamba di poltrona da portare a casa. 

Non un bello spettacolo, insomma. 

Ma guai ad incolparne gli autori e la compagnia, quando fa tanto più fine parlare piuttosto di «crisi epocale della democrazia», di «calo di interesse di cui andrebbero indagate le cause», di spiagge e di stadi, di «complessità dei quesiti», di «clima di sfiducia nei confronti dei partiti e delle istituzioni»...

E se ci si chiedesse invece quale senso possa avere l'esser chiamati a scegliere un cioccolatino da una scatola dove ce ne stanno altri cento tutti uguali? Qualcuno più fresco, qualcuno più secco, forse, ma sostanzialmente identici? Francescanamente attenti alle minoranze «da tutelare», agli «ultimi» a cui tendere una mano, ma disdegnando le maggioranze? Formalmente europeisti ma nemici di ogni eurofederalismo? Atlantici sì-no-ma-però? Di lotta e di governo (purché si lotti contro qualsiasi governo)? Progressisti, pur di fermare il progresso? Pronti a far sempre più debiti, ma non a ripagarli? Inflessibili verso la pagliuzza nell'occhio dell'avversario ma accomodanti con la trave nel proprio? Immemori del passato, incapaci di un presente, incuranti del futuro? Uguali, e tuttavia litigiosi?

Perché un «partito» possa definirsi tale, dovrebbe pur aver qualcosa che lo «partisca» dagli altri, che lo distingua, che lo separi. Dovrebbe possedere un'idea originale e precisa di quel che intende per civile convivenza, e adeguati strumenti per illustrarla, esplicitarla e perseguirla con coerenza. Pronto a ricever l'applauso dei sostenitori così come i fischi degli avversari. Conscio di aver davanti a sé un solo vero possibile nemico: la vista sconfortante del botteghino deserto e di una platea silenziosa e vuota. 

O meglio: riempita per un quinto al matinée, e poco più della metà alla sera.   

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