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Exit Flop

L'annunciato naufragio dei cinque referendum sulla giustizia spegne le illusioni di chi pensava di poter dettare nuove leggi attraverso uno strumento – il referendum – il cui scopo è all'opposto quello di cancellarle. 

Dei 78 referendum svoltisi finora in Italia, 72 son stati di tipo abrogativo, 1 istituzionale, 4 costituzionali ed 1 consultivo. Nei referendum abrogativi i NO hanno prevalso per 16 volte, i SÌ per 23, ma in ben 33 casi non è stato raggiunto il quorum richiesto del 50% dei votanti. 

L'unico referendum istituzionale (monarchia-repubblica) ha evidentemente visto la vittoria del SÌ, così come il solo referendum consultivo europeo (1989). Delle quattro consultazioni costituzionali, invece, due son state sonoramente bocciate (riforma Renzi-Boschi) e due promosse (riforma titolo V e riduzione numero parlamentari).

Il non-risultato di ieri dovrebbe indurre a qualche considerazione. 

Stabilito che il potere legislativo compete in Italia al Parlamento, con il quale costituzionalmente si identifica il «popolo italiano» (in nome del quale vengono promulgate leggi e sentenze) la velleità di molte forze sindacali e politiche di legiferare invece «dal basso», ignorando o bypassando il Parlamento, si è fortunatamente rivelata nella maggior parte dei casi una mission impossible.  

Cancellare una legge con un referendum non significa infatti migliorarla: non soltanto perché una norma ancora peggiore potrebbe sostituirla, ma anche perché l'italico menefrego fa spesso in modo che la norma cancellata non venga sostituita da alcunché. Lasciando così un comodo vuoto legislativo che chiunque potrà riempire a proprio piacimento secondo i propri interessi e profitti. 

A dimostrare la malafede di chi imbocca la scorciatoia del referendum sta il fatto che chi li propone preferisce faticare per raccogliere le 500.000 firme necessarie per distruggere una legge, anziché limitarsi a quelle 50.000 che la Costituzione richiede invece per scriverne una nuova, attraverso lo strumento della proposta di legge di iniziativa popolare. 

L'art. 71, infatti, prevede che non solo i parlamentari e i ministri possano avanzare disegni e proposte di legge, ma anche gli stessi elettori: «L'iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale. Il popolo esercita l'iniziativa delle leggi, mediante la proposta da parte di almeno cinquantamila elettori di un progetto redatto in articoli». 

Perché dunque un'associazione, un movimento o un partito che abbia serie proposte da fare dovrebbe ricorrere alla ruspa del referendum anziché al cantiere della proposta di legge di iniziativa popolare? Che, oltretutto, costa (in firme e gazebo) dieci volte di meno? 

Solo chi ama distruggere, anziché costruire, difende il referendum abrogativo. E chiede magari l'abolizione del quorum del 50% dei votanti. Senza il quale il referendum abrogativo cesserebbe di essere un presidio di democrazia, arma estrema contro ogni legge liberticida, per diventare invece uno strumento eversivo e antidemocratico in mano alle più sparute minoranze. Terrapiattisti, no-vax e multicomplottisti inclusi.   

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