Gli umani ci perdoneranno se qui in Paradiso non si rideva tanto dai tempi in cui Caligola nominò senatore il proprio cavallo, manco fosse un cinquestelle pronto a candidare la Panda alle prossime amministrative Ma la notizia di uno «sciopero» della Magistratura italiana nessuno davvero se l'aspettava!
Storicamente, lo sciopero è sempre stata la sola possibile arma in mano ai lavoratori per far pesare il proprio dissenso dalle decisioni del loro padrone. Una manifestazione di protesta strettamente connessa ai rapporti produttivi dell'età industriale, che necessita pertanto di due insostituibili controparti: i lavoratori e il padrone. Dove l'efficacia o meno dello sciopero dipende da un elementare principio della logica: a) se è vero che il padrone si arricchisce sfruttando il mio lavoro, smettendo di lavorare io mi impoverisco, ma il padrone si impoverirà ancor di più: ergo riconoscerà il suo torto e aumenterà la mia paga; b) se invece il padrone non muove un baffo e, anzi, approfitta della fabbrica chiusa per riunire la famiglia ed andarsene in vacanza, significa che non è certo il mio lavoro ad arricchirlo, ma che egli è già ricco di suo. E sono io in torto per averlo ingiustamente accusato di sfruttamento. Punto.
Se questo è il principio che sta alla base di tale modalità di protesta, in che modo l'astensione non dal lavoro (i magistrati non «lavorano»: ricoprono una carica istituzionale) ma dai propri doveri, può essere considerata uno «sciopero» e non piuttosto una mera ribellione?
La Magistratura è uno dei tre corpi separati dello Stato, quello che incarna il potere giudiziario, a cui vengono assegnati e riconosciuti pari grado e pari dignità col Parlamento e col Governo, che rispettivamente esercitano il potere legislativo e quello esecutivo. Se la Costituzione li ha voluti definire corpi «separati», in omaggio al dettato di Montesquieu, è perché così distinti debbono essere. Se necessario, anche in certa misura in contrasto tra loro, così da potersi meglio controllare a vicenda.
Come titolerebbero i giornali, di fronte a un equivalente, quanto improbabile, «sciopero del Parlamento» o a un inspiegabile «sciopero del Governo»? Lo riterrebbe la pubblica opinione una legittima manifestazione di dissenso o non piuttosto una diserzione dai quei doveri ai quali ogni parlamentare, governante o magistrato, assumendo l'incarico, ha giurato fedeltà?
Eppure è questo quel che accaduto, ad opera di alcune associazioni di magistrati che han scelto lo strumento di un sedicente «sciopero» per sottolineare la propria distanza da alcune modifiche che il Parlamento intente apportare al funzionamento della Magistratura.
Modifiche in gran parte di natura procedurale, tra l'altro, solo in parte parte concernenti l'assetto istituzionale dell'ordine. Nella fattispecie, la separazione tra le carriere di magistrati inquirenti e giudicanti (più che opportuna, dal momento che i compiti degli uni sono l'esatto opposto di quelli degli altri, doverosamente parziali i primi e per definizione imparziali i secondi) insieme ad alcune limitazioni per quei magistrati che intendano riprendere a svolgere i propri compiti dopo un'esperienza di tipo governativo o parlamentare, tese a sottolineare quella necessaria separazione tra i corpi dello Stato che la Costituzione prevede.
Lungi dalle questioni di merito, abbondantemente intessute di ottima lana di provenienza per lo più caprina, quel che maggiormente accende il nostro divertimento è la questione di forma. Abbondantemente stabilito (a mezzo Costituzione) che i magistrati non possono essere considerati dei «lavoratori» (tanto meno «sfruttati»), quale mai dovrebbe essere allora quel «padrone» destinato a rappresentarne la controparte?
Nell'ordinamento italiano, che rispecchia il modello della repubblica parlamentare, esiste un solo «padrone»: il popolo italiano, ossia quel Parlamento sovrano (sola carica istituzionale a elezione diretta) che lo rappresenta. Parlamento che, comunque, pur posto al centro dell'assetto istituzionale del nostro Stato, non è un potere «superiore», ma di pari grado rispetto a Magistratura e Governo. Dunque non certo un «padrone», ma tutt'al più un collega. E dove mai s'è visto un «lavoratore» scioperare contro i suoi compagni, anziché contro un padrone?
Forse alla radice del fraintendimento c'è proprio il fatto che alcuni magistrati sono realmente convinti che il loro sia un «lavoro» e non un incarico istituzionale. Forse perché destinati ad amministrare leggi che son scritte altrove (dal Parlamento che le redige e dal Governo che le pone in essere. Ma è pur sempre il Capo dello Stato – dunque il capo della Magistratura – colui che decide infine se promulgarle o meno) all'interno di strutture costruite e amministrate dal Governo (i Palazzi di Giustizia), a cui spetta anche assumere il personale a ciò necessario (quelli sì, lavoratori), non sempre adeguato, non sempre sufficiente. Ed è vero che ogni magistrato emette le proprie sentenze «in nome del popolo italiano», dunque del Parlamento che quel popolo rappresenta. Ma anche parlamentari e governanti potrebbero lamentare (come in effetti fanno, e talvolta con alti strepiti) di essere a loro volta soggetti al giudizio della Magistratura. Ma tale è appunto il nostro assetto istituzionale, basato sul reciproco contenimento tra poteri separati e distinti.
Se la Magistratura volesse rivolgere alle altre due istituzioni una critica ben più motivata e costruttiva, in ossequio al principio costituzionale di separazione tra i poteri potrebbe piuttosto pretendere, come da sempre accade in altre repubbliche parlamentari, che la medesima incompatibilità oggi in discussione tra ruoli in magistratura e ruoli parlamentari debba essere imposta anche tra cariche parlamentari e governative. Perché non è né elegante, né saggio, né opportuno che una stessa persona possa al medesimo tempo far parte del Governo e del Parlamento, non meno di quanto un magistrato eletto parlamentare o nominato ministro possa conservare al medesimo tempo le proprie funzioni di giudice o pubblico ministero. Perché anche tale doppio incarico, parlamentare e governante, inficerebbe quella necessaria separazione tra i poteri che la Costituzione richiede.
Quella sarebbe una giusta lotta, diretta non al mantenimento di un privilegio di dubbia costituzionalità, qual è la contemporanea presenza di uno stesso individuo in due differenti e opposti organi istituzionali, ma all'estensione di tale limitazione anche agli altri due corpi dello Stato, e non ad uno soltanto.
Resta tuttavia il fatto che persino una battaglia così giusta cesserebbe d'esser tale se poi venisse portata avanti con l'inappropriata, incomprensibile e ridicola arma di un presunto quanto improponibile «sciopero».
Che, tafazzianamente parlando, finisce più col colpire chi l'ha incoscientemente proposto che non l'inesistente «padrone» contro il quale pretende di rivolgersi.
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